In questi giorni il ciclismo vive momenti intensi per quanto riguarda il “problema” doping. L’inchiesta del Senato Francese ha riportato a galla relitti della memoria che pochi hanno voglia di affrontare serenamente, in particolare la particolare specie umana del tifoso. Tifosi che infatti non mancano di farsi notare con commenti del tipo “…ma che se ne vadano tutti a fare in culo…francesi ipocriti di merda“, senza contare la solita task force del “lo hanno ucciso due volte” come la chiama Leonardo Cohen del Fatto Quotidiano.
Il soggetto di queste ultime esternazioni è ovviamente Marco Pantani, totem intoccabile per tanti in Italia, meno all’estero -garantiamo-, in particolare per la generazione che lo ha visto “nascere” come fenomeno mediatico oltre che ciclistico, e che oggi è grossomodo quella dei 30-40enni che monopolizza i socialmedia, come dimostrato da statistiche. Gente che non manca di ricordare le “emozioni” che “il Pirata” ha suscitato in loro e magari li ha avvicinati al ciclismo (a quello televisivo, ma in fortunati casi anche a quello praticato).
Fare i conti con un passato che poi tanto dorato non era non è mai facile. Le disillusioni costano care, ma come spiega bene Eugenio Capodacqua di Repubblica, gli indizi per avere un certo disincanto c’erano tutti e da tempo…al netto dei complottisti che vedono trame planetarie ovunque.
In realtà la realtà è, ad opinione di chi scrive, un po’ più semplice. O meglio, complessa proprio perché semplicemente imprevedibile e tutt’altro che facilmente “manipolabile” da improbabili menti superiori che tutto controllano. Soprattutto se poi queste presunte menti superiori si ha l’occasione di incontrarle. E ci si rende conto che nemmeno loro sanno se pioverà tra 10gg come tutti gli altri.
Tolti i cori da stadio ed i tifosi coi loro ricordi adolescenziali traditi cosa hanno portato gli scandali a ripetizione recenti? Dal caso Armstrong con pentimento in mondovisione all’indice francese?
Non molto tutto sommato. Chiunque voglia dimostrare un po’ di dimestichezza con l’ambiente non manca di far sapere che “si sapeva già“. O che “l’ambiente è così da sempre“. Però, come affermato da Jacky Durand in un moto di esotica (rispetto “l’ambiente”) onestà “les gens ne sont pas dupe” (la gente non è scema)….
Dal più misero dei dilettanti, all’ex-pro che può vantare un podio ad una classica monumento, appena spenti i riflettori (o i registratori) e finito con le frasi di circostanza, tra cui quella imperante che vuole “la nuova generazione” totalmente estranea a certi metodi e pratiche, si lasciano finalmente andare ai soliti discorsi: “ero in forma crescente al giro del Portogallo e non riuscivo a tenere il gruppo in pianura…“; “Armstrong si che era uno con le palle: con la gendarmerie fuori dall’autobus si faceva una sacca sul pavimento“; “al controllo mi è caduto il boracin del doping (urine adulterate -ndr-)…due risate dicendo che era il bibitone per il recupero al commissario e finita li“; etc…
Il problema quindi qual’é? O meglio, si vuole parlare di problema? In fondo il doping, dal punto di vista penale è solo ad uno dei primi gradini del codice, ha solo la sfortuna di essere inserito in un contesto che vive ancora di retorica ottocentesca. Ma hanno ancora senso le frasi tratte dalle Mythologies di Roland Barthes citate in diretta tv da Auro Bulbarelli (il Galibier “dio del male”…) in un mondo dove i protagonisti (corridori e medici-guru) finiscono nelle cronache per evasione fiscale e contestate residenze in paradisi fiscali?
L’ambiente ciclismo ha perso la sua credibilità nei fatti e non può essere con le parole e con i twit piccati dei corridori che può riconquistarla. Non solo agli occhi degli appassionati (che tanto, spesso, li hanno foderati di prosciutto), ma verso se stesso. L’impressione è che ancora una volta invece di abbattere un muro si voglia nascondersi dietro. E non è difficile, perché l’amico o il tifoso “onorato” di farsi la foto col corridore ci sarà sempre, e così il giornalista fiero di avere il numero di cellulare del campione (ma non quello che hanno tutti ed a cui non risponde, ma quello “buono”).
“Les gens ne sont pas dupe”, dice Jacky Durand, ed allora lasciamo perdere l’ipocrisia di cui parla Riccardo Riccò ogni 2×3 (-difficile dargli torto almeno in quello-) e raccontiamoli questi fatti. Basta “cugini” ed “amici Pro”. Perché invece di mezze frasi o frasi a registratori spenti qualcuno dell’ambiente non racconta come stanno le cose? Non nel solito libro, che poi leggono in 3 e che gli altri 3 si fanno raccontare, ma in un’intervista. Nero su bianco. Per sfatare i tanti miti che sono dati in pasto al pubblico e che servono solo ad alimentare leggende e confusione.
La confusione in cui il doping prospera.
Perché David Millar (?) ha bisogno di uno pseudonimo per raccontare alcuni retroscena del mitico “ambiente”? Perchè Luca Scinto twitta una foto ripresa dalla Gazzetta in cui si fa il riassunto della carriera di Froome? Per lasciare la mollica di pane a chi? Con che credibilità? Non poca ad opinione di chi scrive, ma bisognerebbe metterla nero su bianco, non lasciarla sospesa nell’etere…
Travis Tygart, l’uomo dell’USADA che ha portato Armstrong alla confessione ha proposto il programma “Truth and reconciliation” (verità e riconciliazione).Un programma in cui gli attori “dell’ambiente” possano, con alcune garanzie ed incentivi, fare chiarezza sui tanti lati nascosti del “sistema doping”. Una sorta di programma protezione testimoni accoppiato a quelle commissioni “indipendenti” (si, in Italia suona strano) che si vedono nei film hollywoodiani in cui interrogano e non fanno sconti se uno racconta balle. Un programma che al di fuori della cultura USA potrebbe produrre qualche mostro (delatori) ed essere considerata nel peggiore dei modi (i soliti complottisti…), e che di fatto è già rigettato nel vecchio continente.
Ed in parte anche nel nuovo, visto che Gerrit Keats, 72 anni, urologo della Florida, e Robert Hutchins, 52 anni dello Utah sono stati arrestati settimana scorsa per minacce di morte nei confronti di Tygart, ed ora rischiano 5 anni di galera.
Ad ogni modo, per quel che vale, se qualcuno “dell’ambiente” vuole raccontare come funzionano le cose dall’interno, uno spazio qui gli sarà garantito. La speranza è l’ultima a morire.