No, non è un altro modo... è l'unico modo di interpretare la cosa.
Per essere uno sportivo professionista e NON avere problemi psicologici o ritirarti o altro, devi avere le palle cubiche ed avere vicino le persone giuste.
E invece è proprio un altro modo di interpretare la questione: per essere uno sportivo professionista devi avere la testa bacata e avere vicino le persone sbagliate, che ti stimolino a continuare anche quando vorresti/dovresti fermarti.
Insomma tu alla resilienza degli atleti di vertice dai una connotazione positiva, io una negativa. Anche perché di esempi di atleti al top con ripercussioni sia fisiche sia psicologiche, sia a breve sia a lungo termine, ce ne sono a valanghe. E quello che è noto al grande pubblico è solo la punta dell'iceberg, perché c'è molta propensione a raccontare e a raccontarsi relativamente a quello che va bene e poca a farlo relativamente a quello che va male.
Che ne sappiamo realmente di chi NON ha problemi psicologici (ma non solo, ripeto)?
Il fatto che figure come psicologi dello sport stiano diventando sempre più centrali e considerate fondamentali, per me, è abbastanza sintomatico di un malessere di fondo che non si riesce più a tenere nascosto.
Quindi uno dovrebbe chiedersi: il problema lo devo curare/tamponare o devo cercare di prevenirlo?
In generale la risposta è (o dovrebbe essere) ovvia, per quanto riguarda lo sport professionisto naturalmente il discorso cambia dato che per natura stessa dell'attività si "deve" cercare il limite.
Scelte personali, va benissimo (anche se dei limiti esterni sono già imposti, ad esempio in materia di doping, attrezzatura, ecc) però è corretto fornire una narrazione completa, che poi si può sintetizzare nella frase
è uno sport di merda