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Il caro vecchio doping

Il ciclismo è cambiato moltissimo negli ultimi 20 anni, ormai è una constatazione che viene fatta quasi quotidianamente, tra metodi di allenamento, materiali, alimentazione ed un profluvio di studi scientifici che aggiornano ormai periodicamente questi aspetti. Del doping invece si è persa un po’ traccia, nel senso che chi viene beccato lo è perché “era il solito corridore alla frutta”, che sparava l’ultima cartuccia o per entrare o restare nell’ipercompetitivo mondo del ciclismo pro attuale; per il resto l’opinione pubblica si divide fondamentalmente su chi pensa che tanto siano tutti dopati, come sempre, e che siano cambiati solo metodi e sostanze, secondo il vecchio adagio che tanto “l’antidoping insegue sempre il doping”, e chi invece è convinto che il ciclismo oggi si sia redento dopo un trentennio di lacrime e sangue e anche solo a sentir parlare di doping si innervosisce e attacca gli altri sport, perchè il ciclismo è supercontrollato, etc.etc..

In realtà una recente indagine del quotidiano spagnolo Marca sugli esiti dell’operazione Ilex da una chiave di lettura molto meno sofisticata di quello che potrebbe essere lo scenario oggi. I controlli antidoping potrebbero essere circonvenuti alla moda degli anni ’90, sfruttando un “buco” nella legislazione spagnola: le leggi sulla privacy in Spagna implicano che non sono consentiti controlli antidoping a casa degli atleti tra le 23:00 e le 06:00. Ci sono state occasioni in cui l’UCI è riuscita a ottenere un permesso speciale dalle autorità spagnole, ma ciò è avvenuto solo in casi estremi.

Le informazioni provenienti dalla Sezione salute pubblica e doping della Guardia Civil mostrano che i ciclisti in Spagna sanno di avere un’ampia finestra temporale per consentire ai loro corpi di eliminare eventuali sostanze illecite prima delle ore in cui sono consentiti i test nel paese. Inoltre a non poter effettuare controlli notturni, gli agenti antidoping non possono visitare gli atleti nei fine settimana.

Un esperto antidoping anonimo contattato da Marca ha rivelato che i ciclisti potrebbero utilizzare questo sistema per evitare di essere scoperti: “Hanno studi grazie ai quali sanno quanto tempo dura la sostanza nel loro corpo e ciò significa che, ad esempio, i medici possono ‘prescrivere’ una sostanza alle 23:01. così che, alle 6 del mattino, non ce n’è più traccia nel tuo corpo”.

Né più né meno di quello che un Lance Armstrong faceva 25 anni fa.

I rapporti risultati dall’operazione Ilex puntano il dito anche su un’altra area di preoccupazione per le autorità antidoping, ed è l’obbligo di inviare i campioni per le analisi al laboratorio competente entro 48 ore dal prelievo. Ciò crea problemi per i paesi con accesso limitato ai laboratori accreditati.

Sempre rimanendo in Spagna, ad esempio, i campioni di sangue prelevati come parte dei test fuori competizione possono essere prelevati solo fino a mezzogiorno di giovedì per consentire agli ufficiali di rispettare la finestra di 48 ore. La fonte di Marca ha commentato: “…da giovedì sera a domenica loro [i corridori] possono fare quello che vogliono perché quasi sicuramente nessuno li controllerà“.

Ancora peggio in Sud America, dove in tutto il continente esiste un solo laboratorio accreditato, situato a Rio de Janeiro, quindi:  “…è impossibile che un’analisi ben fatta arrivi entro il termine di 48 ore se viene inviata da altri paesi come Colombia, Argentina o Ecuador“.

Stessa cosa accade nel continente Africano, con un solo laboratorio accreditato WADA, in Sud Africa.

Il rapporto dell’operazione Ilex poi mette in luce che ci sono discrepanze nella lettura delle analisi tra i vari laboratori, e che la possibilità di corruzione in alcuni di questi è concreta (un’indagine a proposito è ancora in corso).

In Spagna poi c’è un ulteriore scappatoia legale, che interviene nel caso di positività data dal passaporto biologico. Questo grazie ad un precedente, quello del corridore della Burgos-BH Ibai Salas, il quale ha avuto l’onore di essere stato il primo squalificato per anomalie sul passaporto biologico in Spagna, nel 2018. Peccato che il tribunale amministrativo spagnolo (cugino dei mitici TAR italiani) abbia annullato la sospensione nel febbraio 2019 sulla base del fatto che il passaporto biologico da solo non può fornire la prova dell’uso del consumo di sostanze o metodi proibiti, in quanto “non è sufficiente [da sola] a provare un reato”.

Solo un successivo appello al TAS da parte della WADA ha portato alla squalifica di 4 anni di Salas, ma vien da se che la legislazione spagnola vigente rappresenta un ostacolo, oneroso da parte delle istituzioni mondiali, da circonvenire. Cosa che poi allunga considerevolmente i tempi dei procedimenti. Infatti l’UCI prima di comminare una squalifica deve attendere che tutta la trafila processuale sia terminata, lasciando nel limbo della sospensione i corridori, ed attirandosi (come noto) gli strali dei tifosi, che incredibilmente ne danno la colpa all’UCI stessa, la quale invece deve attendere per forza di cose che le operazioni di polizia siano terminate ed i fatti accertati, proprio come nel caso dell’Operazione Ilex, che ormai già compie 2 anni abbondanti, ma non è ancora chiusa.

Tutto questo ovviamente non è una prova contro il ciclismo indistintamente, ma mette in luce che ormai, dopo 40 anni di singhiozzi ed inciampi vari, una normativa comune a livello internazionale sulla materia sia necessaria.

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Pubblicato da
Piergiorgio Sbrissa

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