Il ciclismo professionistico sembra arrivato ad un (nuovo) punto morto, e questa volta la causa non è il doping, ma le differenze di disponibilità economica delle squadre.
La cosa sembra diventata di attualità con il Tour de France appena terminato. Il quotidiano francese Libération scrive che questo Tour “lascia una sensazione di stanchezza, condivisa dalla maggior parte di spettatori e corridori“. È chiaro che in particolare il ciclismo paga l’accumulo di scandali continui degli ultimi 20 anni, che oramai, a torto o a ragione lo hanno reso un “Broken Sport“, come lo ha definito Simon Mottram, CEO di Rapha. Chi vince è dopato, e siccome qualcuno che vince, volente o nolente, c’è sempre…
Uno scalatore francese che ha partecipato all’ultimo Tour, intervistato sempre da Libération, e tenuto anonimo, ha dichiarato: “Questa corsa diventa sempre più strana. Non so nemmeno se ci sia più delusione o semplicemente la lucidità nel constatare la fatalità di un’edizione di scarso interesse“.
Ovviamente le diatribe sull’interesse di un’edizione piuttosto che un’altra ci sono sempre state. Nella secolare storia del Tour de France è chiaro che qualche edizione più o meno interessante ci sia sempre stata. Questo interesse poi è soggettivo, e legato all’interesse specifico di chi guarda: un esperto di ciclismo trova spunti di interesse che il tifoso occasionale magari non trova, ad es.; e l’interesse di un Grand Tour è sempre paragonato a quello degli altri, come l’eterna diatriba di campanile su cosa sia meglio tra Tour, Giro e Vuelta, etc…
In tutto questo i primi dati diffusi riguardo gli ascolti in Francia danno un Tour in buona salute: 33 milioni di telespettatori hanno seguito il Tour sui canali televisivi France 2 e France 3, con uno share del 37,5%, leggermente migliore del 37,1% dello scorso anno. La tappa più seguita è stata quella vinta da Primoz Roglic a Lauruns, seguita da quella dell’Alpe d’Huez (5,6 milioni) e quella vinta il 24 luglio da Alaphilippe (5,1 milioni).
Aldilà di questa componente soggettiva va preso atto che l’atmosfera generale riguardo questo Tour è appunto una “sensazione di stanchezza”. Con anche il lato negativo di un crescente comportamento antisportivo da parte di una fetta del pubblico, che minoritaria quanto si vuole, contribuisce all’immagine dello sport.
I primi a prenderne atto sono stati gli organizzatori, con la famosa Amaury Sport Organisation (ASO), che ha cercato di introdurre alcune novità, come la tappa di 65km con griglia di partenza stile MotoGP, che però obiettivamente si è rivelata un fiasco. La mini-Roubaix sul pavé ha eliminato un tot di contendenti offrendo forse “spettacolo” durante la stessa, ma privandolo forse altrettanto nelle tappe successive.
L’UCI da parte sua ha ridotto il numero di corridori per squadra, ma il primo obiettivo, la sicurezza e la riduzione delle cadute, sembra non essere stato centrato e tantomeno un aumento della spettacolarità.
Ora Christian Proudhomme, direttore del Tour de France, si è mosso in un’altra direzione, quella della proibizione dei misuratori di potenza. Per chi scrive questa misura si rivela quantomeno ingenua e diretta ad accontentare probabilmente quello che viene chiesto a gran voce da parte del pubblico, ma sulle cui basi di competenza a riguardo ci sarebbe da interrogarsi. I misuratori di potenza non sono dei tachimetri, e proibirli non avrebbe l’effetto sperato di far andare più veloci i corridori o fargli fare immaginifici “attacchi da lontano”. L’unico effetto probabilmente sarebbe quello di vedere scoppiare a tot km dal traguardo i corridori che non li hanno mai saputi usare. I misuratori di potenza sono l’ausilio ad un metodo, e siccome questo metodo ormai è stato integrato dai corridori non è togliendo l’ausilio che si cancellerebbe il metodo.
Queste misure “riparatorie” sono spesso solo destinate al fallimento, negando l’evoluzione di uno sport.
Un dirigente francese, anonimo pure lui, coglie invece un punto fondamentale , di cui tutti parlano, ma che non sembra avanzare minimamente: la distribuzione della ricchezza tra le squadre. Che detta cosi suona un po’ comunista, ma che è stata accettata persino nelle poco comuniste leghe degli sport professionistici USA: il tetto salariale.
Già nel 2012 dei rappresentanti di corridori professionisti si erano riuniti constatando che ci fosse la necessità di una migliore distribuzione delle risorse finanziarie del ciclismo. Da allora non solo niente è stato fatto, ma le cose sono decisamente peggiorate. Il divario finanziario tra le squadre è esploso. Una discreta squadra Continental, con un corridore di livello che ha partecipato al Tour, come la Fortuneo-Samsic, nel 2017 aveva un budget di 3,5 milioni di euro. Circa 10 volte meno del Team Sky. Sky che ha un budget doppio anche della Sunweb di Tom Dumoulin, 2° classificato a Giro e Tour.
Con i budget sono esplosi gli stipendi dei top-rider: Froome e Sagan oggi veleggiano ad ingaggi attorno ai 5 milioni annui. Idem per i costi di sponsorizzazione: fornire il materiale tecnico ad una squadra WorldTour è diventato affare per aziende che devono sborsare milioni in caso di biciclette, ma centinaia di migliaia, almeno, di euro anche solo per l’abbigliamento. In un periodo di poca salute del settore investimenti del genere sono un rischio concreto.
Una proposta dei rappresentanti dei corridori e dei Team Manager è la ri-distribuzione dei profitti dei grandi eventi alle squadre. Un Tour de France genera circa 30 milioni l’anno netti, ma da questo orecchio gli organizzatori sono completamente sordi. ASO (che detiene i diritti anche sulla vuelta e alcune grandi classiche) da sempre rifiuta categoricamente anche solo di intavolare una trattativa a riguardo.
In questo modo le squadre sono sempre legate a doppio filo agli sponsor, che ovviamente legano il loro impegno ai risultati, e senza la garanzia di ulteriori introiti il rischio chiusura in mancanza di risultati (e nel ciclismo basta una caduta per mettere fuori gioco il campione di turno per una gara o per mesi) è sempre presente, come si è visto in tempi recenti con le difficoltà di alcune squadre, ed i balletti di sponsor e denominazioni varie.
Introiti che oltretutto non sono nemmeno garantiti in misura sufficiente dai premi gara. Questi quelli del Tour appena terminato, che ammontano a 2.287.750eu, che vanno anche tassati e decurtati di contributi per l’associazione corridori, test antidoping e pure le ammende comminate in corsa. E che vanno distribuiti in base ai risultati, esacerbando le già note differenze tra le squadre:
1. Team Sky €728,630
2. Team Sunweb €245,280
3. LottoNL-Jumbo €190,980
4. Quick-Step Floors €145,070
5. Bora-Hansgrohe : €125,900
6. Movistar €114,620
7. UAE Team Emirates €100,650
8. Bahrain-Merida €86,050
9. AG2R La Mondiale €69,800
10. Trek-Segafredo €58,850
11. Wanty-Groupe Gobert €56,600
12. BMC Racing €54,340
13. Astana €53,530
14. Groupama-FDJ €53,290
15. Direct Energie €40,850
16. Fortuneo-Samsic €36,590
17. Cofidis €25,780
18. Mitchelton-Scott €20,970
19. Katusha-Alpecin €18,070
20. Lotto-Soudal €16,750
21. Dimension Data €15,730
22. EF Education First-Drapac €14,420.
(oggi ASO paga almeno un contributo di partecipazione di 55.000eu per squadra e gli alloggi, cosa che non avveniva fino a qualche non fa)
Come conclude il dirigente suddetto: “il problema del ciclismo oggi non è il doping, ma i soldi.”
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