La squadra Colombia, che recentemente ha annunciato la propria uscita dal circuito professionistico, a causa della mancanza di supporto finanziario dello sponsor principale ovvero il ministero dello sport colombiano, si vede ora alle prese con anche le recriminazioni di alcuni propri corridori.
L’articolo è apparso sul blog di Georgina Ruiz Sandoval, giornalista sportiva ESPN, non fa nomi per “proteggere le proprie fonti”, e dipinge un quadro tutt’altro che allettante del mondo professionistico del ciclismo. Perlomeno di quello di seconda fascia, dove la teoria dei “marginal gains” sembra solo fantascienza.
Si parte dall’inevitabile illusione di entrare a far parte dell’élite ciclistica, firmando un contratto “svantaggioso”, evidentemente in termini economici. Con mezzo stipendio da versare in tasse nelle casse “di un paese di cui non conoscevamo le regole” (la Colombia aveva sede ad Adro).
300eu dedotti direttamente in busta paga per la casa, da dividere con altri 4 compagni, e quando un corridore vuole andare a vivere da un’altra parte il team manager lo “sconsiglia” quasi fisicamente.
La richiesta di avere le bici da cronometro per allenarsi non viene presa in considerazione e le vedono solo in occasione delle gare.
L’alimentazione è lasciata alla buona volontà dei corridori, ma la cosa di cui più si lamentano è che avveniva lo stesso per la salute, “il dono più importante per un ciclista”. Nessuno se ne cura, e quando un corridore ha la febbre viene semplicemente lasciato a casa 3 giorni dalle gare. Spese mediche a carico dei corridori, senza rimborsi.
La mancanza di soldi ed i ritardi nei pagamenti si traducono nel mangiare solo riso e lenticchie, con comprensibili ricadute sulla prestazione e la qualità degli allenamenti.
Gli infortuni non erano contemplati. Chiedere di tornare a casa per curarsi equivaleva alla fine del contratto, ma la cosa peggiore pare fossero le pressioni psicologiche a riguardo, per cui l’infortunato era “un viziato che aveva bisogno della mamma”.”Gli psicologi c’erano, ma per favi sentire male”.
Se questo non dovesse bastare si spargeva la voce che il corridore fosse pigro e poco professionale, chiudendo le porte di altre squadre.
Le gare erano quindi affrontate senza morale, con l’unica indicazione di “fare quello che puoi”. Con tanto di reprimenda per un corridore che era andato in fuga senza aspettare di muoversi nel finale dopo essere stato a ruota.
Il tono di queste confessioni parla da sè. Impossibile sapere se si tratti di corridori inevitabilmente delusi per la fine del progetto, ed in particolare quanto di vero ci sia in questo sfogo.
Alcune considerazioni però non sono proprio novità nell’ambiente, che spesso nella realtà è meno dorato di quanto appaia in tv o agli occhi degli amatori. O forse dà l’idea del perché alcuni amatori “forti” preferiscano un’ottima carriera granfondistica al professionismo descritto nell’articolo del blog.
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