Ed ecco la mia avventura, partita per scherzo, continuata per testardaggine, finita per amor proprio. La premessa: ove posso, quando posso, perche posso, uso le due ruote. Non sono un fanatico ambientalista, sono semplicemente un pragmatico. Di motivi per non usarla ce ne sarebbero tanti ma, per ora, i motivi per usarla sono di più, indi per cui mi sono piegato alla mera legge della praticità.
Pero’ come sempre nella mia vita amo le cose fatte a modo mio, e ove posso permettermi il lusso di controllarle, le faccio interamente a modo mio. Il lavoro mi concende il privilegio e la fortuna di girovagare per il mondo, e nel mio peregrinare ho incontrato anime, idee, spiriti, pensieri ed emozioni che quando tradotti in realtà lasciano un segno indelebile, di quelli che fanno venire un sorriso mentre ci ripenso a distanza di anni e migliaia di chilometri.
E cosi fu in uno dei tanti viaggi che mi imbattei in questo mondo sommerso e magnifico dell’artigianale, dell’homemade, di quel fai da te che misto a maestria, pazzia, vocazione pioneristica, rende i sogni realtà con una semplicità disarmante. Senza computer, senza strumenti di precisione, ma solo amore, passione e praticità, tutte cose che i nostri nonni avevano scritte nel codice genetico con una semplice parola: sopravvivenza e che oggi rieccheggia ancora in qualche anima pia che per diletto e passione si arrovella tra strumenti improvvisati e idee strampalate a costruire ciò di cui ha bisogno.
Ovvio diranno in molti, ci vuole tanta manualità, ma contrariamente a quanto si possa pensare la si può acquisire, basta essere curiosi e non temere il fallimento. Ricordo sempre due principi base che secondo me dovrebbero accompagnare qualunque viaggio alla scoperta e alla produzione di un oggetto:
- Tutto quello che non c’è, è qualcosa che sicuramente non si romperà, perciò sii semplice! (massima del mio prof di teoria dei segnali a ingegneria
- Un tal Edison, interrogato dopo aver annunciato l’invenzione della lampadina e torchiato sui tanti fallimenti (si dice 2000) prima di arrivare a quella funzionante, disse: “Io non ho fallito duemila volte nel fare una lampadina; semplicemente ho trovato millenovecento-novantanove modi su come non va fatta una lampadina“.
Quando ho visto per la prima volta una bicicletta in legno, me ne sono inamorato a prima vista. Ma mi sono ripromesso che se mai un giorno avessi potuto permettermene una, avrebbe avuto la mia firma. Il legno è uno di quei materiali dalle mille proprietà e che nelle mani di qualche sapiente artigiano può creare poesia, per l’occhio e per lo spirito. Restando vivo e vibrante.
Un passo indietro:ormai piu di un paio di anni fa ho assemblato una scatto fisso. Un bel progetto che aveva tanto di stiloso ed estetico più che di ingegneristico (al di là dell’aspetto meccanico-tecnico di saperla assemblare), ma mentre mettevo insieme le idee anche le sfide costruttive iniziavano a stimolare il mio ingegno, e cosi provai a unire alcuni di questi scellerati pensieri con l’applicazione di manualità, strumenti e materiali, creando qualcosa che mi colpì nel risultato finale: era nato un manubrio in legno!
Il mio primo. Ma ora iniziavano le vere sfide ingegneristiche. Di rischiare la pelle emulando i fratelli Wright non avevo granché voglia, e cosi ho iniziato a studiarci ed applicare un po’ di tecnologia (grazie ancora agli strumenti che il mio lavoro mi ha messo gratuitamente a disposizione), e finalmente raggiungo il risultato finale di avere un manubrio da scatto fisso sufficientemente solido per farci MTB (eccetto i 35cm di larghezza), ma esteticamente bello da poterci fare un’opera d’arte (intendiamoci, ogni valutazione è prettamente soggettiva! Ma questa è la mia opera, la mia bici e il mio racconto, indi la mia valutazione).
Il manubrio aveva un non so che di mistico ai miei occhi. Al di là dell’opera personale, aveva colori e naturalezza che solo il legno poteva donare, e cosi ho iniziato a mettere insieme il vero puzzle:costruire un’intera bici in legno! Era un sogno, è ancora un sogno, probabilmente qualcosa che non avrà mai una parola fine come progetto, ma chi mi accompagnerà per tanto tempo alla ricerca della perfezione del mio immaginario.
Piano piano la creatura ha preso forma, e di nuovo con lo spirito più pragmatico che ci sia ho iniziato a lavorare a ciò che era, per me, la sfida più grande: il cerchio! Indubbiamente internet è stata fonte di ispirazione, fonte inesauribile di informazioni, ma alla fine tutto doveva tornare nelle mie mani, e con passione e cura e una collaborazione esemplare (grazie Alessandro di CB!) ho realizzato l’opera ultima, due meravigliosi cerchi in puro legno, senza alcun rinforzo o anima in metallo o fibra.
La raggiatura era ed è ordinaria amministrazione, indi non ho perso più di tanto nel cercare di reinventare nulla, ma nel tempo ho comunque apportato qualche modifica che mi risulta esteticamente più piacevole e accattivante, tipo la raggiatura radiale. Assemblati i cerchi su un telaio (di recupero ovviamente, 20 euro in discarica e 20 ore per sabbiarlo e tirarlo lucido) mi accorgo che il legno pone sfide non preventivate.
Cromaticamente non è un abbinamento facile, e altre parti già si configuravano nei miei occhi necessarie mentre vedevo ancora solo lo scheletro di quello che poteva essere una bici funzionale. Funzionale, già, perchè non dimentichiamoci che il mio fine ultimo è di fare qualcosa che si possa usare,con cui possa andare a far la spesa e farmi un giro lungo il lago. E qui di nuovo il problema, sottovalutato all’inizio: la bici deve essere piu pulita possibile! niente fili, e quindi niente freni, niente cambio, niente di niente. Il manubrio doveva rimanere pulito. Poi devevo scontrarmi con la realtà di dover fare salite (e non poche) nonchè discese (e non poche)
Torniamo indietro di qualche decennio: il nonno frenava girando i pedali all’indietro, il contropedale! Una scatto fisso vera e propria era impensabile, un contropedale anni 50 era invece la combinazione perfetta. Detto, fatto: ordinato mozzo, riassemblato, ricostruita la ruota. Ho risolto il problema della discesa, non quello della salita; un 50/13 è duretto, e qui di nuovo il sorriso sulle labbra pensando a quando girovagavo per gli States con la mia Schwinn cruiser. Non avevo le marce, eppure c’erano nei pedali! Già, il cambio automatic. Detto fatto, altra ruota altro giro, ora ci siamo! Nota: tra i”detto e fatto” ci passano giorni se non settimane di ricerche, incazzature, prove, valutazioni e ordini di pezzi inusabili, ecc.
Ma smonta e rimonta i pedali: quanto li trovo brutti. Vediamo un po’ il nonno cosa usava. Ci sono, solo un po’ arrugginiti, un po’ grippati, ma hanno uno stile unico. Peccato quei due tronchetti di gomma consumata come appoggio, ma già li vedevo fatti in legno. Ed eccomi di tornio a costruire e ricostruire. Ricostruisco i cuscinetti, smeriglio tutte le parti in metallo (che dopo 50 anni e un bello strato di ruggine, sotto presentava un acciaio perfetto), fatto! Sí, decisamente belli!
Reggisella: ormai è una passeggiata. Disegno, tornisco, detto fatto: è un 25.5″, si rompesse alla peggio vado alla bersagliera, niente fratelli Wright, si può fare!
Adesso viene il bello, il telaio! Maledetto il giorno in cui ho avuto quell’idea. Un chiodo fisso che si è scontrato con sogni e realtà, ma chi la dura la vince!
Partiamo dai materiali. Studia, cerca, sogna, pensa. Gira e rigira trovo che la base della ruota sia il miglior compromesso, ma la realizzazione risulta davvero troppo complessa, e poi ètroppo pesante, troppo ingombrante! Ma madre natura ha già fatto tutto, basta sfruttarla. Il bamboo ! Studia, cerca, sogna, pensa, e finalmente realizzo i modelli, realizzo i pezzi. Misuro la MTB per essere sicuro delle quote, tutto torna, ora bisogna solo assemblare.
Nel mio immaginario sogno perfetto l’assemblaggio era una parte secondaria e quando mi ritrovo con tutti i tubi in bamboo precisi e tagliati inizio a pensare a come farli stare insieme, con quote e misure che devono essere davvero precise. Ok, facciamo una dima (grazie Sunny di averci pensato!).
Il bisogno aguzza l’ingegno. Non credo ci sia detto più azzeccato per descrivere le migliaia di piccole cose che durante il processo mi son inventato per poter sistemare piccole difformità che ho dimenticato o sottovalutato qui e lì, ma quanto è bello il processo di riarmeggiare. Fatta la dima, fisso i tubi. L’emozione è quasi troppa, ha la forma di una bici (metà almeno).
“Punt” i vari giunti ed ecco che si apre di nuovo un mondo di sogni e pensieri, idee e difficoltà di realizzazione. I giunti devono essere strutturali, ma non voglio usare fibra di carbonio, o vetro o qualunque altra diavoleria, le origini, solo le origini! Fibra naturale certo, ma quale. Altro viaggio, altro sorriso. Grattacieli costruiti impalcando il bamboo, ma come lo tengono insieme quei minuscoli operosi asiatici? Con le corde bagnate? E corda sia.
Sogno contro realtà. Ancora una volta, ancora grattacapi, ancora una birra, ancora un po’ di svago con la MTB pensando a come fare. La corda di una volta, quella che usava il nonno per portarmi sui monti “alla Bonatti”. La canapa! E canapa sia. Se qualcuno avesse mai assistito un idraulico mentre giunta due tubi, forse intuirà che la canapa non è propriamente il materiale più resistente che ci sia, né tantomeno è cosi facile da intrecciare e lavorare mentre una bici è in dima e aspetta qualcosa o qualcuno che la renda da un insieme posticcio di tubi un unico pezzo di saggia maestria e resistenza.
Ed ecco l’idea. D’altronde tra moto e barche di pezzi con resistenza strutturale ne ho costruiti tanti. Dove sarà la difficoltà qui? Sempre più facile a dirsi che farsi: resina epossidica! Un po’ di prove a canapa nuda mi portano a concludere che la tecnica va raffinata. Mi servono quasi 8 metri di corda di canapa per giunto! Impossibile da posare e poi resinare a pennello, troppo alto il rischio di non farla penetrare a sufficienza.
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Dunque con tanta pazienza e perizia mi metto ad ammollare tutti gli 8 metri di corda e poi rifare tutti I giunti, che non è cosa di poco conto tenendo presente che la resina in mezz’ora si indurisce abbastanza da essere non più lavorabile, né tantomeno se si considera di far passare sopra e sotto una matassa di 8 metri con il telaio ancora in dima. Ah già, dimenticavo di aver tirato a lucido i tubi in bamboo, e che la resina diventa decisamente ingestibile quando imbratta, quindi devo anche proteggere i tubi durante la lavorazione (a quante cose può servire il Domopack).
Ovviamente i giunti vanno “lavorati” per renderli capaci di presa totale, e quindi via di lima.
A parte qualche pecca da principiante, o meglio qualche ovvio intoppo da primo prototipo, il risultato mi piace.
L’asciugatura della resina a temperature polari pone una nuova sfida: costruiamoci un forno. Il Domopack era una buona soluzione, basta prendere il fratello in alluminio.
I giorni di lavoro passano senza nemmeno accorgersene. Nel complesso il colpo d’occhio mi piace tantissimo. Lo guardo con orgoglio ogni giorno, un buon mix tra sapere antico (che non ho, intendiamoci), artiigianato, forza di volontà e tanta tanta pazienza e ancora volontà. Poi quel gusto rustico dei giunti con il legno vivo le dona un carattere molto personale Ed ora si inizia con il lavoro di fino, uno di quei lavori che ancora oggi ho tanta invidia per chi mette pazienza e meticolosità infinita, perché sono quelli che rendono il prodotto finale davvero unico.
Così, armato di lima, riporto tutta la resina e i vari giunti ad un aspetto coerente, e poi via di carta vetrata sempre più fine fino ad arrivare alla gommalacca e lucidatura a paglia fine. Si insomma, peggio che un mobile, ma il risultato finale come primo prototipo mi riempie d’orgoglio. L’assemblaggio finale è stato comunque un secondo parto, con tantissimi piccoli particolari da sistemare. Ora ci sono ancora un paio di chicche per completare l’opera, che ho già messo in cantiere. Quando saranno finite vedrò di aggiornare il lavoro. Il primo test drive lo faccio con un misto di emozione, paura e soddisfazione.
Mi metto in testa il casco da MTB giusto per non saper né leggere né scrivere (e la giacca da moto che almeno ha protezioni un po’ ovunque). Regge! E va che è una meraviglia. Però la forca proprio non mi piace, e questa in legno pone sfide che forse vanno oltre il fattibile. vedremo il risultato in futuro.
Decido di lavorare di estetica pura, oltre a buttare quel copertone nero (aspettavo mi consegnassero il marrone Kenda..). Rismonto la forca e penso a come abbellirla: con la canapa di nuovo! Visto che è solo estetico, vediamo di lavorare con meno resina e più materiale biocompatibile. Un po’ di mani di gommalacca sulla canapa intrecciata e intrisa di Vinavil hanno fatto il resto.
Ed ora con quel sorriso mi godo il girovagare senza meta con la mia bici in legno handmade.
A presto per il secondo prototipo e le nuove modifiche. E grazie ancora, sempre e comunque al mio caro nonno, che come un enciclopedia vivente mi ha insegnato il sapere dei vecchi e di quel mondo che non c’è più, sostituito da macchine e computer, quando invece passione, ingegno, pazienza e voglia di scoprire con un cacciavite in mano facevano più di squadre di ingegneri!