Era un ragazzo sano, agile, ma tremendamente magro. Gli amici lo chiamavano “stringa”. Aveva una passione in testa, e nient’altro: il ciclismo. Non veniva da una famiglia di ciclisti, ma di contadini, tutti amanti del ciclismo però e delle sue storie. E lui, a 15 anni, voleva diventare un corridore, ma gli amici, sentendolo, lo prendevano in giro ridendo: “Corridore tu? Ma va la che sei un cavalletto”. Nel dialetto locale cavalletto vuole dire “ronzino”. Insomma, la considerazione era poca, ma basata sull’aspetto, e spesso nel ciclismo l’aspetto tradisce.
Stringa faceva su e giù tra la casa dei genitori e il salumaio dove lavorava con la pesante bici, prestatagli da suo zio Livio, con cui consegnava i pranzi avvolti in tele a quadrettoni e salumi. Una bici da panettiere, da garzone insomma.
Una mattina, di buon’ora, sta pedalando allegramente verso il lavoro quando vede davanti a se un gruppo di corridori dilettanti in allenamento. È la prima volta che ne vede un gruppetto cosi da vicino, mentre si allenano. Spinto da curiosità si avvicina e comincia ad osservarne le maglie colorate, le fantastiche bici. Vere bici da corsa: coi cambi, i tubolari, i puntapiedi.
Il gruppetto accelera sugli strappi, ma il ragazzino con la bici da garzone è sempre li. Alla fine uno dice ad alta voce: “Mario, cosa vorrà questo ragazzino che ci segue con tanto accanimento sulla bicicletta di suo nonno?”.
Il ragazzino, da bravo piemontese, è suscettibile e gliela giura: raccoglie tutte le sue forze e scatta sui pedali. Supera il gruppetto e riesce a prendere cento metri di vantaggio. I dilettanti lo seguono alla disperata, ma i cento metri non diminuiscono. In centro al paese, dove c’è il negozio del pizzicagnolo ad aspettarlo, Stringa arriva per primo conservando i cento metri di distacco che è riuscito a dargli con lo scatto iniziale.
Come scriverà molti anni più tardi di quella bicicletta da garzone:
“È stata lei ad avermi rivelato a me stesso, ad avermi offerto, in quella indimenticabile mattina di tanti anni fa, il primo sapore della lotta; più cara assai di tutte le meravigliose macchine di cui mi sono servito più tardi e che rappresentavano le compagne inseparabili della mia vita sportiva“.
–Fausto Coppi, “Tuttosport”, 16 gennaio 1950
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