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Le bici artigianali

Cosa sono le bici artigianali? Per definizione sono bici create da artigiani, ovvero non prodotte industrialmente. Ma sotto questa vaga definizione cadono varie tipologie ed intenzioni. Parlare di bici artigianali presenta infatti non poche difficoltà, legate in particolare al cercare di non urtare le sensibilità di chi ama questa tipologia di bici e se ne fa alfiere (o, peggio, tifoso) per un motivo o per l’altro. Lo scopo dello scriverne però è proprio quello di farne un excursus per i non iniziati e per i curiosi.

La bici innanzitutto non parte come artigianale. Già agli albori della sua storia la bici era un mezzo concepito per far muovere più persone possibili da un posto all’altro. I piccoli club di agonisti della bicicletta, soprattutto nell’epoca delle Grand Bi, le bici col ruotone davanti, erano piccoli circoli di benestanti che si divertivano (quando non cadevano, allora il divertimento spesso si tramutava in tragedia) in imprese amatoriali tra amici.

Poi con l’avvento delle Safety Bicycles (le, più sicure appunto, bici con le ruote dello stesso diametro) la bicicletta ha cominciato a diventare mezzo di trasporto di massa, buone per svariati usi, da quello militare, a quello di servizi vari.


Nel 1885 in Inghilterra un censimento riportava 535.000 proprietari di biciclette. 180.000 in Germania e 55.000 in Francia. Francia che usciva (male) dalla guerra contro i prussiani del 1870 e ne pagava le conseguenze, ma che recuperò velocemente grazie alla capacità di ideare ed organizzare gare: Paris-Brest-Paris nel 1891, Bordeaux-Paris nel 1891, Paris-Roubaix nel 1896 e quindi Tour de France nel 1903 propulsero tutto il movimento, vendite comprese, tanto che un altro censimento, del 1908, riportava 2.224.394 biciclette circolanti in Francia.

Ovviamente la produzione iniziava dal basso, con artigiani di ogni tipologia, fabbri, lattonieri, etc.. a lanciarsi nella produzione, ma rapidamente a trasformarsi in piccole e medie aziende con svariati dipendenti, quindi da subito non con l’idea di produrre “creazioni artigianali”.

Probabilmente la vera svolta nella creazione di prodotti artigianali nel senso inteso anche oggi arriva tra le due guerre mondiali ed in particolare durante la seconda guerra mondiale. Le biciclette erano state perlopiù soppiantate nel trasporto di massa dall’avvento delle automobili e dei ciclomotori, in particolare come status symbol per i benestanti, ma l’avvento della seconda guerra mondiale aveva portato con se l’impossibilità di approvvigionamento di benzina per i privati, in particolare nella Francia occupata. A questo si aggiunge tutto il movimento di “ritorno alla natura” in voga dagli anni ’20, con fenomeni come lo scoutismo in UK, i Wandervogel in Germania e tutto il movimento delle randonnée, pedestri e non, in Francia (in Italia lo scoutismo era stato sciolto dal regime fascista già nel 1926, stessa sorte toccata ai Wandervogel tedeschi, soppiantati dalla Hitlerjugend).

Questo portò un rinnovato interesse verso il cicloturismo e le gare amatoriali. In questo contesto si affermarono i primi “artigiani” in uno dei sensi moderni, ovvero piccoli costruttori che servivano una clientela benestante con biciclette non solo “su-misura”, ma con varie personalizzazioni, come i supporti per borse e luci per i randonneur. Uno dei più celebri fu René Herse, un artigiano francese che aveva lavorato come attrezzista nell’atelier di Louis Charles Breguet, aviatore e pioniere dell’aviazione civile. In particolare Herse rifiniva a mano vari componenti in alluminio (o meglio duralumin, lega di alluminio e rame, in voga all’epoca) per alcuni aerei speciali, come il ? (punto di domanda), l’aereo che realizzò la prima traversata da est ad ovest dell’atlantico nel 1930.

Curiosamente, le teste delle viti utilizzate da Herse sulle proprie bici avevano un disegno identico a quello delle viti utilizzate sulle auto Bugatti dell’epoca. Ettore Bugatti aveva lavorato come consulente motoristico del ? nello stesso periodo di Herse.

Herse realizzava non solo i telai delle proprie bici, ma anche varia componentistica, dalle pedivelle agli attacchi manubrio (in alluminio). I lavori di Herse sono di qualità leggendaria, e ispirarono una generazione di altri constructeurs. Oltre a stimolare la concorrenza dei vari Alex Singer, Follis, etc. C’è da dire che Herse colmò un vuoto in questo settore lasciato da due famosi costruttori di questo genere a lui precedenti: Narcisse e Barra (pioniere nella realizzazione di bici con telaio in alluminio), ma che furono deportati, in quanto uno ebreo e l’altro di origine italiana, negli anni ’30.

Questo genere di bici può essere considerato una delle tipologie di “bici artigianali” presenti nel panorama attuale. Ovvero bici costruite con una cura del dettaglio ed una personalizzazione particolare in base alle richieste del cliente per un utilizzo specifico. Da una decina di anni almeno grande attenzione è stata riportata su questo genere di bici da Jan Heine, un tedesco trapiantato negli USA, prima editore del trimestrale Bicycle Quarterly, poi blogger, ed oggi anche (ri) produttore della componentistica René Herse, dopo che ne ha acquisito il marchio dalla figlia di Herse, Lily.

Al contempo, un’altra tipologia di bici artigianali si stava imponendo nel mondo, ed erano quelle realizzate per i campioni professionisti. Sino agli anni ’30 le bici utilizzate dai campioni del pedale erano ovviamente un mezzo pubblicitario per spingere le vendite per quelle destinate al grande pubblico, ma la relativa semplicità (i primi deragliatori posteriori -il solo modello Super-Champion- furono autorizzati al Tour de France nel 1937, quelli anteriori nel 1946) e l’assoluta necessità di avere mezzi robusti sopra ogni altra caratteristica, visto che si correva su strade non asfaltate, o mulattiere in montagna, limitava la fantasia dei costruttori.

Ma l’avvento dei gruppi trasmissione e l’approccio meno “eroico” e più “scientifico” nelle gare porterà alla ricerca di migliori materiali, votati alla leggerezza. Oltre ad una prima ricerca “biomeccanica” nel mettere in sella i corridori, che ora ricercavano la prestazione nel senso di miglior efficienza, e non solo di comodità, dato che anche le tappe dei grandi giri si facevano sempre più numerose e corte per esigenze varie.

Le geometrie cambiarono drasticamente, con passi accorciati, angoli meno rilassati di sterzo e piantone, e cominciò anche la ricerca della leggerezza, che nei primi tempi veniva ottenuta perlopiù limando il più possibile le congiunzioni dei telai in acciaio. Lavori manuali che semplicemente non potevano essere adottati su larga scala, ed erano riservati ai telai dei campionissimi in reparti dedicati dove lavoravano i migliori telaisti ed attrezzisti delle aziende. Mitico in questo senso il Reparto Corse della Bianchi, dove si costruivano bici “speciali” non solo per i campioni che correvano per la marca, ma anche per quelli che oggi sarebbero VIP, come Primo Carnera o Ardito Desio. Prima della seconda guerra mondiale non esisteva in effetti un vero e proprio “reparto corse”, ma un “reparto costruzioni veli speciali” (veli era la denominazione derivante dal francese vélos, = biciclette) dedicato appunto ad alcuni modelli di punta della Bianchi ed ai telai che finivano sotto il sedere dei campioni.

IL campione che ne decretò il successo e l’aura leggendaria fu ovviamente Fausto Coppi, per il quale il reparto corse costruì 70 bici tra il 1945 ed il 1958, con una pausa nel 1956-1957. Ma il reparto corse costruì anche bici per molti altri assi del pedale: Darrigade, Anquetil, Rivière, De Filippis, Baldini, Nencini, Gimondi, Altig, etc.. spesso poi verniciati nei colori dei marchi ufficialmente utilizzati dai corridori.

È grazie a questi campioni, in particolare a Coppi, che cominciò anche il mito delle persone che lo seguivano e che non potevano che essere eccezionali a loro volta, fosse anche solo per osmosi. La stampa ebbe compito facile nel mitizzare il massaggiatore cieco di Coppi, Biagio Cavanna, o il suo meccanico, Giuseppe de Grandi, detto Pinella (o Pinèla, essendo torinese), “pinza d’oro” come fu soprannominato nientemeno che da Jacques Goddet, direttore del Tour de France, nel 1949. E così anche chi realizzava i telai dell’Airone, che materialmente era Luigi Valsassina, che fu uno dei primi “telaisti” di fama, tanto che nel 1948 lasciò la Bianchi richiesto da Cino Cinelli per avviare la propria produzione di telai. Valsassina che fu soppiantato da Luigi Gilardi, che già lavorava al Reparto corse. Valsassina che dopo il 1980 fu sostituito in Cinelli da Claudio Chirico, quindi Andrea Pesenti e poi Mario Camillotto.

Ovvero ormai si era imposta l’idea del telaista di eccezionali capacità, chi di grande fama, come Faliero Masi, costruttore milanese di telai per un numero infinito di campioni, chi più nell’ombra, come il torinese Giuseppe Pelà, vera eminenza grigia del “telaismo” italiano. Scuola italiana che poi venne esportata all’estero, come fece proprio Masi, impiantando una fabbrica in California, negli USA, dove il telaista a cui si affidò fu Mario Confente, altro personaggio mitico.

Le storie di questi telaisti poi sono diventati uno degli argomenti più gettonati tra gli appassionanti per capire chi ha fatto cosa, chi si è affidato a chi come terzista, chi ha insegnato cosa a chi, etc.. in un loop infinito che ad un certo punto sconfina nella paranoia. Ma resta il punto qui di interesse: l’artigiano diventa un protagonista, è l’uomo dietro le vittorie del campione, quello che conosce i segreti per la bici che fa vincere, che da un vantaggio. Ovviamente è facile intuire come siano le vittorie del campione di turno a fare le fortune del tal telaista, come il concetto di sponsorizzazione farebbe intuire, ma soprattutto che se il telaista è un “mago” che salda nell’anonimato del suo sottoscala la bici del campione (tutto questo nell’immaginario del compratore) bisogna assolutamente avere una sua bici per andare più forte, o, le volpi non mancano mai nel ciclismo, pagarla meno che non quella “ufficiale” dello sponsor.

Ecco quindi che si delinea l’altra tipologia di bici artigianale, quella del telaista di fama perché vero artefice della bici dei campioni, che conosce i segreti per farlo andare più veloce, che possiede l’occhio per regolare al mm ogni componente in modo che l’atleta possa esprimere tutto il suo potenziale. Cosa ovviamente promessa anche all’amatore che però ha comunque poi un arsenale di altre giustificazioni nel non aver espresso il proprio di potenziale nel caso la bici sia quella saldata dal “mago”.

La coorte di telaisti, terzisti e visionari inventori di ogni sorta di soluzione “tecnica”, anche le più ridicole (ma se c’è gente che coltiva campi interi col cornoletame Steineriano non si vorrà dare una chance anche ad un attacco manubrio sforacchiato col trapano o ad un cuscinetto ceramico?) cade in disgrazia con l’avvento dei dopatissimi anni ’80 e ’90. Gli anni dell’avvento della tecnologia pesante, quella del carbonio, delle ruote lenticolari, delle forme avanguardistiche, delle bici da crono che fanno sognare ogni ingegnere, pure quelli gestionali ed informatici. È la morte della poesia del cannello, delle cromature, del genio da sottoscala che sforna telai con l’interasse di uno skateboard o pieni di buchi. È il trionfo della tecnica.

Perché la tecnologia mette in pensione l’artigianalità. D’altronde chi preferirebbe volare su un aereo costruito da un “artigiano” piuttosto che su un Airbus? (Ok, la domanda di questi tempi meglio lasciarla senza risposta).

Poi però a rompere le uova nel paniere della corsa all’oro tecnologica arriva nientemeno che l’unione ciclistica internazionale (UCI), che in una grigia giornata dell’ottobre 1996 a Lugano decide di mettere un freno all’innovazione sregolata con una convenzione, la convenzione di Lugano appunto, con cui si fissano dei paletti su come deve essere una “bicicletta”, evitando una deriva incontrollabile.

La tecnologia, da un lato pure limitata, porta con se le limitazioni di una certa standardizzazione, dovuta ai processi produttivi, ad esigenze di mercato o altri fattori. La bicicletta diventa nera, di carbonio. Le biciclette vengono affinate in galleria del vento, con programmi di simulazione al computer per renderle più leggere, più rigide, più rigide dove serve, più comode, più comode li, ma non la; più rigide, ma restando leggere o più leggere restando rigide uguale. Il marketing va in cortocircuito. Come si fa a rendere appetibile un prodotto se per capirlo serve un PhD in ingegneria? Siamo sicuri che tutte queste storie di flussi turbolenti e laminari non siano supercazzole? Cosa me ne faccio di 2 watt in più a 50km/h, se i 50km/h li faccio solo in discesa dove non pedalo? E se per vederli sti 2 watt mi tocca spendere 5-6-700 e più euro per un misuratore di potenza?

Non era meglio quando si poteva “sognare” di andare più veloci grazie al mago che mi salda un fodero basso di 2mm di sezione maggiore? Che mi dice che quell’angolo piantone li è proprio quello che le mie gambe chiedono? Che il rapporto di lunghezza tra il mio femore e la mia tibia lo chiede a gran voce? E poco importa se il mago misuri la tibia una volta dal malleolo una volta dal calcagno con un metro rigido da sarto. L’importante è crederci, è sognare. È che quella bici sarà soltanto mia (e lo resterà nonostante i continui ribassi su Subito quando vorrai venderla).

Il telaista quindi col tempo perde un proprio pezzo importante, quello che si accaparra il biomeccanico. Quello che ti prende le misure, le agita e mescola nel pc e ne tira fuori la formula perfetta per “stare comodo in sella”. Il telaista non deve più pensare a valutare le misure per distribuire ottimamente il carico di peso tra anteriore e posteriore fratto gli angoli piantone e sterzo per rendere la bici “guidabile”, “agile”, “reattiva”, etc.etc.  col rischio poi di subire lamentele perché “scomoda”. Prende le misure del biomeccanico e salda (o incolla, perché si, le bici artigianali possono anche essere di carbonio). Ovviamente semplifico ed ironizzo, ma oggi la “bici artigianale” è anche un po’ questo, avere la bici “su-misura”, perfetta per le mie quote antropometriche, indipendentemente dal fatto che io ci voglia fare gare o altro. Quello che conta è la personalizzazione, un oggetto mio e solo mio, non standard. Una volta Dario Pegoretti, compianto artigiano di fama, mi disse: “ho clienti che non mi comprano la bici se gli dico che la misura giusta è un 56 quadro (56×56 -ndr-), ma la comprano se gli dico che ci vorrebbe un 56,2×55,9”).

Ed ovviamente qui si viene ad un altro aspetto della bici artigianale oggi, ovvero la personalizzazione. Poter scegliere le grafiche, i colori, dare il tocco personale, dare libero sfogo alla propria fantasia. Ed infatti ci sono artigiani che spingono potentemente su questo aspetto, curando la verniciatura all’inverosimile e, chiaramente, facendola pagare di conseguenza.

Meno libertà c’è per quanto riguarda la personalizzazione dei componenti, se non scegliendo quelli che più ci piacciono esteticamente o per motivi variegati, dal nazionalismo sfegatato all’amore per un marchio in cui ci si identifica. Non manca però il mercato di componentistica esoterica, anch’essa artigianale, per chi vuole distinguersi ancora di più, per chi vuole definitivamente risaltare nel gregge.

Scherzi a parte il mondo delle bici artigianali oltre che essere un modo per personalizzare il proprio mezzo in base a particolari esigenze antropometriche, di utilizzo, di creatività o per esprimere la propria personalità, sono soprattutto un serbatoio di creatività, in cui anche le aziende più grandi pescano per intercettare i vari “trend”. Non è un caso che il più importante salone dedicato alle bici artigianali sia stato sponsorizzato (almeno sino ad ora) da Shimano, il più grande produttore di componentistica del mercato.

Ed in fondo oggi la bici artigianale continua a svolgere l’importante funzione che ha sempre svolto: liberare la creatività, pur mascherandola a volte sotto altre facce.

 

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Pubblicato da
Piergiorgio Sbrissa

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