In questi giorni sto guardando la serie Netflix su Michael Jordan, The Last Dance, e questo tuffo negli anni ’90 mi ha fatto emergere molti ricordi dell’epoca, tra cui un’uscita in bici che mi ha segnato positivamente. Da qui l’idea di condividere le tre uscite memorabili, con la speranza di sentirne di belle anche da voi e, magari viverne ancora…
1-La più bella
Non so se in realtà sia l’uscita più bella, ma sicuramente il primo “lungo” ha un sapore ed un’importanza particolare, per l’ansia ed i timori che la precedono, per la fatica di portarla a termine, ma poi la grande soddisfazione di aver solcato quella soglia così importante per entrare nel mondo del ciclismo. Erano i primissimi anni ’90, non c’erano Strava e app, e l’unico modo che avevp per misurare l’uscita era un computerino CatEye rosso a filo.
La bici era una “Quantum” in alluminio, forcella anch’essa in alluminio, montata con un gruppo Deore da MTB, delle ruote “aero” con cerchi Mavic Cxp33 ed il manubrio con le prolunghe ed i poggiagomiti con cui sognavo di essere Indurain, con anche la stessa corona, cioé io il 42 massimo, lui il 42 per il Mortirolo, ma sono dettagli…
In una giornata di fine agosto mi sono lanciato da Milano verso la verde (più o meno) Brianza, affrontando Colle Brianza e poi Lissolo prima di tornare a casa. Sceso dal Colle verso Santa Maria Hoé, sulla destra ho questa immagine di un campo d’erba delimitato sul fondo da un muro bianco, che con la luce del tardo pomeriggio sembravano bianchissimo il primo e dorato il secondo. In discesa, con il vento caldo in faccia, ad un certo punto uno stormo di piccioni e colombe hanno preso il volo dal campo tutti assieme. È un’immagine che da allora mi è rimasta sempre negli occhi, legata alla prima sensazione di libertà e bellezza che la bici mi ha dato. A distanza di anni è un’immagine che chiudendo gli occhi mi si ripresenta con ancora quella sensazione di libertà e bellezza.
2-La più angosciante
Forature, incidenti, cadute, rischi presi e jolly incredibili giocati fanno parte dell’andare in bici. Finché i danni sono limitati e si possono raccontare va tutto bene. Un’uscita a cui è legato personalmente un grande senso di angoscia però non risale a molto tempo fa, ma alla London-Edinburg-London del 2013. Nell’ultima tappa, con soli 150km mancanti, ma sadicamente zeppi di strappi e controstrappi per oltre 1000mt di dislivello, ero ormai abbastanza stanco e stufo e volevo solo arrivare. Era notte, ed una notte particolarmente buia, senza luna, senza stelle, con una pioggerellina inglese fastidiosa.
La mancanza di luce amplificava il senso di smarrimento in mezzo alla campagna, in una stradina stretta delimitata da muretti a secco, senza nessuna luce di case, città, fabbriche. Buio assoluto, rotto solo dalla luce anteriore della bici e dal piccolo faretto rosso posteriore se mi giravo. Sbuffando su strappetti ripidi di cui non vedevo mai la fine, ad un certo punto, alla mia sinistra, ma lontano un 3-400mt ed un po’ più in basso rispetto la mia quota, si accesero le luci di un’auto. Il buio mi impediva di capire come fosse la conformazione del territorio, se ci fossero strade dirette tra me e l’auto, se fosse in un parcheggio, in un prato o altro.
Mentre proseguivo ho notato che l’auto aveva cominciato a muoversi, mi pareva lentamente, ma non capendo la distanza non riuscivo a valutare esattamente, fatto sta che mi pareva venisse verso la mia direzione, lentamente. Dopo qualche minuto mi sembrava chiaro che l’auto mi seguisse, o, quantomeno, che venisse nella mia direzione. La cosa che ha cominciato ad angosciarmi è che si muoveva lentamente.
Tra me e me non capivo perché non mi raggiungesse subito e mi superasse. Intanto dopo la fine di uno strappetto ne era cominciato un altro. Il fascio della mia luce mi permetteva di vedere che lo strappetto scollinava 100-150mt più in alto, dove sulla sinistra si trovava un albero isolato. Lo strappetto però era molto ripido, ben oltre il 10%, e la mia velocità era minima. L’auto sempre dietro, ma sempre alla stessa distanza.
A quel punto ero abbastanza spaventato, e non sapevo cosa fare: chiamare col cellulare qualcuno? Per dirgli che mi trovavo dove? Dandogli le coordinate del Garmin? Tornare indietro? Fermarmi? Alla fine mentre non mi decidevo, continuavo, e ad un certo punto mi ero convinto in qualche modo che scollinato avrei trovato dall’altra parte un paese o almeno un lampione o un segno di vita.
A qualche decina di metri dall’albero in cima notai che c’era un bivio con una strada ancora più stretta che andava a sinistra, ma la linea della traccia (senza mappa) mi indicava di andare dritto, quindi alla fine ho optato per rimanerci sopra. Nel frattempo l’auto era sempre più vicina da dietro, ma era chiaro che deliberatamente non mi raggiungeva. Alla fine ho fatto una specie di scatto per arrivare all’albero e scollinare. Scollinato però rimasi veramente atterrito: la strada non scendeva, ma c’era come un lungo falsopiano dritto a perdita d’occhio (per quello che permetteva la portata della mia luce).
A quel punto mi fermai, spaventato e preoccupato. Dopo 1 o 2 minuti però l’auto non si vedeva. A quel punto fui preso dall’indecisione se tornare indietro e vedere se aveva svoltato al bivio. Rimasi li per un 5′ buoni, poi ripresi la marcia dritto sul falsopiano. L’auto evidentemente aveva svoltato al bivio, o si era fermata….di fatto sparita. Non lo saprò mai, ma la situazione me la ricordo ancora per l’angoscia che mi causò.
3-La più comica
Una decina di anni fa mi divertivo nelle sere estive a girare in MTB in un grande bosco parigino, in un settore dove si allenava, appesa la bici al chiodo, un mio beniamino ciclistico: Laurent Fignon.
La sera, dopo cena, la luce era ancora abbondante, ma di gente non ce n’era praticamente più e cosi mi divertivo ad andare veloce quanto potevo per gli stretti sentieri delimitati da siepi e/o rovi. In particolare, uno che mi piaceva molto era una lunghissima curva cieca che percorrevo a fine giro e che poi mi riportava sull’asfalto. Un sentiero in terra battuta stretto tra due altissime siepi e rovi in cui non avevo mai incontrato nessuno.
Era l’epoca precedente a Strava, ed all’epoca usavo come software per archiviare le uscite Rubytrack, che non so nemmeno se esista più, ma che andando a spulciare le vecchie uscite mi indica che in quel punto andavo sempre a circa 29-30km/h.
Nell’uscita incriminata, mentre facevo il mio ultimo sprint serale in questo curvone in cui il senso di velocità era amplificato dalle due altissime siepi laterali, mi sovvengono come in una moviola calcistica le seguenti immagini: un uomo di colore in piedi, a braccia aperte ed occhi chiusi appoggiato di schiena alla siepe di sinistra. Di fronte a lui, carponi, una donna che lo agevolava di una fellatio.
Mi ricordo l’attimo di indecisione sul da farsi. Poi il tirare il freno posteriore intraversando la bici e cercando di puntare alle spalle della donna. Gli occhi di lei, che si girano verso di me e si spalancano in uno sguardo di terrore, ma reso anche comico dalla bocca piuttosto piena. Alla fine io che mi infilo col lato destro del corpo tra i rovi, ma poi riesco a rientrare sul sentiero. La gomma dietro che non colpisce la sventurata, ma la “pela” sul sedere. Con la coda dell’occhio l’immagine di lei che si butta in avanti e l’immagine di lui come una specie di Cristo redentore inghiottito da una siepe che mi sparisce alla vista.
Finita la moviola mi ricordo che qualche metro più avanti mi fermai, dei due tizi nessuna immagine in quanto finiti tutti e due dentro la siepe. Solo le bestemmie in francese di lei e qualche borbottio di lui. Alla fine mi decisi per svignarmela, ma pochi metri dopo mi ricordo anche scoppiai a ridere.
Di esperienze comiche o angoscianti non ne ho. Disavventure, ne ho raccontate, cotte, temporali improvvisi, neve durante una ricognizione. Ma tutto nella norma.
Di veramente tragica ricordo questa cotta colossale.
Di difetto ho sempre avuto la tendenza a sopravvalutarmi dopo un raffreddore o un mal di gola. Immancabilmente gli amici mi allettavano con un bel giro lungo e pieno di dislivello che io - da tordo - accettavo con la consapevolezza che il malanno che avevo avuto la settimana prima non avrebbe influito e - comunque - sarei andato piano e l'avrei portato a termine.
Quella volta mi prospettarono un giro da 160 chilometri con più di 2.000 di dislivello. Con partenza da Recco e non da Genova, se no erano 190.
La faccio brevissima per non annoiarvi ma le cose andarono così. Eravamo in quattro, tre uomini e una donna. Arrivati in cima al Passo del Bocco, dopo già una 50ina di chilometri e un bel po' di salita, la ragazza dice di non sentirsi bene e preferisce tornare indietro. Il suo ragazzo torna indietro con lei. In programma c'era il Passo del Tomarlo, ma io e il mio amico decidiamo di rimandare e di fare un'altra salita: il Passo del Biscia, piuttosto impegnativo e con una strada pessima.
Mangio, faccio tutte le cose per bene e quando arrivo in cima al Biscia, sento di aver finito la benzina. Mangio di nuovo, ma non esco dalla riserva. A quel punto eravamo a 100 chilometri con 2.000 metri di dislivello. Ne mancavano 20 di pianura, la Val Fontanabuona, un lungo falsopiano a salire, e 7 di salita prima della discesa finale.
A metà della pianura vado in crisi pazzesca. Non riesco a tenere più i 20. Dico al mio amico di proseguire che vado troppo piano e preferisco andare da solo, perché stare con lui mi innervosisce. Lui prima rimane, poi si arrende e mi lascia.
Comunque sia, arrivo alla salita e ogni pedalata è una sofferenza. Sono talmente cotto che dopo due chilometri vedo due motociclisti a bordo strada e gli chiedo se mi portano in cima. Risposta: «Lo faremmo ma abbiamo la moto rotta e stiamo aspettando che ci vengano a prendere.»
La mia solita fortuna.
In quel periodo c'era un semaforo per i lavori in corso. Arriva una macchina e gli chiedo di nuovo se mi portano in cima. Sono marito e moglie. La moglie è d'accordo, ma il marito comincia a fare storie «Dove metto la bicicletta? Come ti porto?»
Io rispondo: «Mi attacco al finestrino e mi portate su.»
«Ma sei matto? E se mi vedono i carabinieri?»
In 20 anni non ho mai visto una pattuglia, nemmeno per sbaglio. Ringrazio e proseguo (si fa per dire, più che altro striscio su due ruote). Sono talmente cotto che guardare la velocità sul Garmin mi irrita, così sposto la pagina e vedo dei dati secondari. Lo sguardo, dietro gli occhiali da sole è vitreo e fisso sulla ruota anteriore. Non guardo altro, non penso a niente.
Ad un chilometro dalla vetta, mi affianca il tipo che avevo beccato in macchina e mi chiede se mi voglio attaccare.
Scatta l'orgoglio e rifiuto l'offerta: «Ormai sono arrivato.»
In discesa ero così rigido che, non lo so, ma mi sembrava di fare le curve quadrate.
Arrivo alla macchina e come scendo cammino come se mi avessero infilato una scopa nel... ci siamo capiti. E meno male che quella volta avevo preso la macchina, se no mi toccavano altri 15 chilometri per arrivare a casa.