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L’economia del ciclismo professionistico

Il ciclismo professionistico su strada è uno sport unico nella sua struttura e funzionamento rispetto molti altri sport. La sua struttura, soprattutto a livello economico, ne influenza il funzionamento pratico, e persino le dinamiche di svolgimento durante le corse. Per caprine la struttura e soprattuto i motivi per cui questa si è formata nel modo attuale bisognerebbe vederne l’evoluzione nel tempo, ma questo sarebbe un discorso troppo lungo per essere trattato qui. Cercheremo quindi di evidenziarne solo alcuni aspetti salienti. Per quanto riguarda cifre e stime ci basiamo sul testo The Economics of Professional Road Cycling (Daam Van Reeth, D.J. Larson, Springer, 2016).

Il nome delle squadre

Le squadre ciclistiche prendono il nome dallo sponsor principale. È un caso abbastanza unico nel panorama sportivo. Per fare un parallelo è come se il Barcellona F.C. si chiamasse “Rakuten”. Allo stesso modo le squadre ciclistiche non sono legate ad una denominazione geografica, come “Barcellona” appunto. Lo sono spesso solo indirettamente tramite una connotazione data dalla nazionalità dello staff, dei corridori, dello sponsor principale o di un mix di questi.

Chi è il proprietario della squadra ciclistica quindi? Il proprietario è il detentore della licenza presso l’UCI (Unione ciclistica internazionale). L’UCI è solo il garante dei regolamenti e del funzionamento del ciclismo nelle sue norme operative, e rilascia le licenze a chi ne faccia richiesta, nei limiti dei posti disponibili per ogni categoria, dei criteri etici, amministrativi e finanziari.

Per fare un esempio pratico, chi è il proprietario della Movistar quindi? È la Abarca Sports, società limitata spagnola con sede a Egües, in Navarra. Registrata come società operante nel settore “ricreativo e di divertimento”. Chi sono i proprietari di Abarca Sports? Eusebio Unzué e José Miguel Echavarri. Uno è l’attuale Team Manager della Movistar, l’altro lo è stato sino all’epoca della Caisse d’Epargne (2006-2008), ed ora si è ritirato dal mondo del ciclismo in prima persona.

In linea di massima lo schema si ripete per ogni squadra: esiste una società, con ordinamenti giuridici variabili in base al paese di registrazione, i cui soci di maggioranza, o unici, generalmente sono i Team Manager. Per restare nello specifico: la AG2R -LaMondiale è gestita dalla France Cyclisme di Vincent Lavenu, la lussemburghese Abacanto SA che gestisce la Astana, etc… Vi sono però molti casi di società in cui gli sponsor principali hanno acquisito quote di maggioranza o minoranza e ne esercitano un controllo più o meno diretto. Ad esempio la società che gestisce il Team Ineos, la Tour Racing Limited, è di proprietà al 75% della Ineos Industry Holding Limited. Queste quote però possono passare facilmente di mano a nuovi sponsor. È stato proprio il caso della Tour Racing Limited, la cui quota di maggioranza è passata dalla Sky Broadcasting alla Ineos al cambio di sponsor e quindi di nome della squadra.

Tutto questo vuol dire due cose:

  • La nazionalità della squadra dipende dalla nazionalità del gestore della licenza. Se la società che gestisce la licenza è ad esempio svizzera, la squadra sarà registrata ufficialmente all’UCI come svizzera. Indipendentemente dalla nazionalità dello sponsor, dei corridori, o altro. Era ad esempio il caso della Katusha, che pur avendo “un’identità” russa, era di fatto, una squadra a licenza svizzera.
  • Le squadre cambiano nome al cambio di sponsor, ma la struttura soggiacente rimane la stessa. Viene facile comprenderlo proprio con l’esempio della Ineos, che di fatto è la Sky con un altro nome. Meno immediato ricordare che ad esempio la Movistar è la moderna incarnazione della Caisse d’Epargne, che prima era la Illes Baleares, che a sua volta era stata la gloriosa Banesto, che prima fu la Reynolds.

Questo sistema ha un forte impatto sul modello economico del ciclismo. Come sarà evidente ogni squadra non ha un valore legato alla propria denominazione. Juventus, Boston Celtics piuttosto che New England Patriots sono brand con un valore, che può essere monetizzato con merchandising vario, ma che soprattutto resta nel tempo, seppur in modo variabile a seconda dei risultati. Questi brand-squadra in alcuni casi sono quotati in borsa. Nel caso del ciclismo tutto questo non è possibile. Cambia lo sponsor cambiano nome, maglie, colori. Se una squadra cambia nome ogni anno cambia praticamente identità ogni anno, non riuscendo nemmeno a fidelizzare gli eventuali tifosi, a meno che questi non seguano le vicende dei vari team manager o di tutte le varie vicissitudini societarie, che peraltro sono a volte molto difficili da sapere a meno di non impegnarsi in visure camerali.

Questo aspetto, questa debole identità delle squadre, rappresenta quindi uno dei problemi maggiori per le squadre professionistiche, che sono sempre legate a doppio filo agli umori degli sponsor, e, nel caso di contratti di breve durata, alla perpetua ricerca degli stessi, senza poter mai consolidare il valore della propria squadra in quanto “brand”.

Astana

Si vince assieme, si guadagna separati

Il ciclismo ha altre peculiarità che si ripercuotono sul suo funzionamento economico. Il primo è che si tratta di uno sport individuale praticato in squadre. Ovvero è uno strano ibrido, non essendo né uno sport individuale come il tennis o il golf, né uno sport di squadra come calcio, basket & c. Questo vuol dire che le corse sono vinte dai singoli atleti, ma la partecipazione a queste è garantita solo alle squadre. Impossibile per un singolo atleta partecipare da solo (in passato non è sempre stato così). Questo sistema produce effetti peculiari sui rapporti di forza interni alle squadre, che possono chiaramente influenzare l’andamento di una competizione. Idem la situazione contrattuale di un (o più) corridore. Ad esempio un corridore a fine contrato, ma con già un contratto “pronto” in una squadra avversaria. Ovviamente molte di queste dinamiche sono regolate da consolidate “regole non scritte” del ciclismo, ma entro certi limiti.

Altra peculiarità del ciclismo è quella di essere uno sport che si pratica all’aperto (tranne quello su pista, ma che non è l’oggetto di questo articolo), ma su suolo pubblico. Questo vuol dire che nessuna squadra può contare su uno stadio, un’arena, un palazzetto,  che in altri sport rappresentano sostanziali fonti di guadagno.

Questo, come noto, rende le squadre totalmente dipendenti dagli organizzatori delle corse, che non solo detengono i diritti televisivi degli eventi organizzati, ma anche quelli sui proventi del brand delle corse, con relativo merchandising, biglietti VIP, utilizzo del nome per le gare amatoriali, etc.. Un grande giro o una classica monumento sono dei veri e propri prodotti, aldilà dei semplici diritti televisivi che generano. Le squadre non toccano un centesimo di questi proventi, dovendo fare affidamento solo e soltanto sui propri sponsor.

Altro aspetto non secondario è che gli organizzatori di un grande giro (o di corse a tappe minori, come Romandia, Dauphiné, Tirreno-Adraitico, etc.) possono disegnare il percorso secondo i loro propri scopi ed interessi, ma andando ad impattarne non poco lo svolgimento ed il risultato per le squadre. Ad esempio una squadra che abbia impegnato molto del proprio budget per garantirsi un’eventuale e lucrosa vittoria mettendo sotto contratto uno scalatore può vedersi vaporizzare ogni velleità con l’inserimento nella corsa di una tappa a cronometro molto lunga e piatta. Questo non avviene in altri sport, dove il terreno di gioco e lo sforzo da produrre resta sempre lo stesso (magari cambia la superficie come nel tennis, ma durante la stagione le chances sono abbastanza equamente distribuite).

Ulteriore aspetto da considerare è che nel ciclismo professionistico c’è una preponderante importanza del singolo evento rispetto una serie. Nella F1 può essere molto prestigioso (con conseguenti ricadute economiche) vincere il GP di Montecarlo piuttosto che quello del Bahrain, ma quello che conta è vincere il campionato mondiale. Idem per i campionati nazionali o continentali di calcio o basket o football, sci. Situazione simile al ciclismo si ha ad esempio nel tennis o golf, ma con la grande differenza che si tratta di uno sport individuale ed in cui ogni singolo individuo ha un suo brand-value. Inoltre, nel ciclismo, al contrario di golf e tennis, i papabili vincitori di ognuno di questi eventi e la specializzazione del ciclismo attuale rendono molto molto difficile, se non impossibile, vincere in più di uno di questi eventi. Un corridore da grandi giri che vinca una o più classiche monumento o più grandi giri, è evento rarissimo.

Nel ciclismo i 3 grandi giri e le classiche monumento sono gli eventi della stagione. Con il Tour de France a farne da perno centrale. Una wild-card mancata al Tour può voler dire la fine di una squadra. Questo si nota anche nella debolezza dell’ente “governativo” del ciclismo, l’UCI, rispetto ai suoi omologhi di altri sport, come FIFA, CIO, etc..

Allo stesso tempo la questione, spesso sollevata, dei diritti tv, è piuttosto complessa. Le cifre che realisticamente le squadre potrebbero ottenere non sono così facilmente calcolabili. Il ciclismo (in particolare i grandi giri che sono gli eventi principali e più ambiti) ha costi di produzione televisiva enormi, vista la natura itinerante ed outdoor dello stesso. Nel passato erano gli organizzatori stessi a pagare per questa produzione e di fatto per la messa in onda. La grande diffusione a livello di pubblico ha incrementato nel tempo il valore del prodotto-corsa e quindi i relativi profitti. Oggi i canali televisivi assorbono i costi di produzione in contratti che sono analoghi a quelli di sponsorizzazione (sempre in perdita per i canali televisivi nei grandi eventi sportivi). Chiaro quindi che gli organizzatori siano molto poco propensi a condividere i proventi di un prodotto da loro creato e promosso.

La sede di ASO a Boulogne-Billancourt

Allo stesso tempo, per l’organizzazione del Tour, Amaury Sport Organisation, ASO, i proventi da diritti tv del Tour sono stati calcolati a circa 54 milioni di euro nel 2012. Per il Giro d’Italia si è calcolato circa 1/5 rispetto il Tour. In totale si parlerebbe, secondo alcune stime, di non più di 15 milioni all’anno da distribuire alle squadre, che potrebbe significare dal 5 al 10% del budget di ogni squadra. Sulla base di queste stime negli ultimi anni le squadre hanno cercato invece di continuare a dare la caccia ad una fetta di torta, ad allargare la torta, concependo degli eventi propri, come le Hammer Series, creando il consorzio Velon a gestirle. Il solito conflitto di interessi tra UCI, organizzatori e squadre, oltre ad un interesse forse non corrispondente alla aspettative, ha però impedito il decollare di questa iniziativa.

Questa struttura ha ripercussioni molto forti su tutta l’organizzazione economica del ciclismo, con un disequilibrio marcato in cui i vari protagonisti, squadre, corridori, organizzatori, federazioni, hanno spesso obiettivi ed interessi divergenti. Inoltre tutto ciò ha effetti pratici anche sulla conduzione delle corse o di tutta la vita dei corridori stessi, con pressioni fortissime per ottenere risultati in precisi e determinati momenti.

Il ciclismo quindi è uno sport che si basa su una struttura finanziaria fortemente disequilibrata e poco organizzata. Spesso le squadre sono sostenute da milionari/miliardari “mecenati” che le finanziano in perdita solo per propria passione. Ma senza prospettive durature. Nel caso ci sia un “cambio di passione” o il decesso del suddetto mecenate il flusso di liquidità si interrompe istantaneamente, lasciando tutta l’organizzazione di una squadra (corridori, staff, management) in una situazione assolutamente precaria.

La mancanza di una struttura consolidata pone anche il problema del rovescio della medaglia di questi ricchi mecenati appassionati di ciclismo: fanno aumentare a dismisura i budget delle squadre. Per un milionario è facile tentazione investire somme relativamente importanti (infime, rispetto altri sport) per arrivare subito al successo. Con 1/10 del salario di un calciatore o cestista famoso si può tranquillamente mettere sotto contratto un corridore di primissima fascia, capace di vincere un grande giro. Questo rappresenta un grosso problema per le squadre che non possono fare affidamento su questo tipo di personaggi, ma devono affidarsi a sponsor più “strutturati” e non mossi solo dalla passione, ma soprattutto da freddo calcolo, che spesso (mai) non coincide con spese pazze.

Questo ha un effetto a catena su tutto l’ambiente, facendo aumentare anche i costi di sponsorizzazione, sempre più difficili da sostenere per sponsor tecnici, ovvero aziende produttrici del mondo ciclistico, raramente dimensionate a livello finanziario in proporzione ai mezzi dei milionari della bicicletta.

Il tutto in un contesto in cui non esistono tetti salariali, fair-play economici o altri mezzi per contenere questo fenomeno (e con la conseguente generale grande opacità economica di tutto l’ambiente, non essendo pubblico quasi nulla riguardo i budget). Questo si traduce in disparità economiche enormi sia tra le varie squadre, sia all’interno delle stesse. Tanto per fare un esempio lontano nel tempo: nel 2002 il neo-pro della US Postal Cycling Team Tom Boonen aveva un contratto annuale di 30.000€, mentre il capitano della stessa squadra, Lance Armstrong, ne aveva uno da 3.390.000, al netto dei bonus (che rappresentava il 50% del budget dei salari per i corridori dell’intera squadra).

L’oggi

Considerato tutto questo una piccola chiosa sulla situazione attuale. Il riassunto migliore lo ha fatto Patrick Lefévère, Team Manager della Deceuninck-Quick Step sulle pagine dell’Het Nieuwsblad:

“[se il Tour de France fosse annullato a causa dell’epidemia] …sarebbe un disastro totale. Ma sarebbe stupido da nostra parte non considerare l’ipotesi. A mio avviso bisogna sempre pensare al miglior scenario ed a quello peggiore. Nel caso migliore si ricomincerebbe a correre in giugno; nel caso peggiore la stagione è finita. Forse sono pessimista, ma chi avrebbe detto tre settimane fa che l’europa intera sarebbe stata in quarantena? ASO, l’organizzazione del Tour [la cui parte ciclismo conta per il 70% del fatturato totale, ma fa parte di un gruppo editoriale molto grande] può incassare il colpo, ma le squadre non possono. Se non ci fosse il Tour de France tutto il modello del ciclismo può crollare“.

 

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Pubblicato da
Piergiorgio Sbrissa

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