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L’enigmatico Bottecchia

I racconti del ciclismo eroico sono sempre molto romanzati. Un po’ perché spesso mancano supporti come foto e video, un po’ perché le gare erano cosi lunghe che andavano riassunte nei temi salienti, che chiaramente erano la sofferenza e la tenacia nell’arrivare in fondo a sforzi massacranti che duravano 15-20h.

Questo viene utilizzato in molti libri su quell’epoca a giustificazione della mancanza di citazioni delle fonti e di una ricerca un po’ dettagliata del contesto, come i dislivelli (invero molto poco citati persino ai giorni nostri) e la geografia delle tappe.

Un caso esemplare è quello di Ottavio Bottecchia. Esistono svariati libri sul campione di San Martino di Colle Umberto (TV), e si resta sorpresi nel leggervi una quantità di dettagli persino contradittori tra di loro, forse più sui suoi risultati ciclistici che su quelli legati alla sua misteriosa morte, che poi è l’oggetto principe della letteratura su Bottecchia.

Già solo le descrizioni sulla sua provenienza sono un guazzabuglio: “muratore del Friuli”, il boscaiolo del Friuli”, “il carrettiere del Friuli” sono epiteti che si leggono spesso, in particolare sulla stampa francese dell’epoca. Bottecchia era trevigiano, quindi veneto, non friulano. Negli ultimi anni della sua vita andò a vivere a Pordenone (30km da Colle Umberto), e spesso si cita questa provincia come la sua, anche se la provincia di Pordenone venne istituita solo nel 1968, e nessuno lo cita come della provincia di Udine…

Con queste premesse figurarsi i dettagli sulla sua morte.

Quello che più mi ha sempre colpito di Bottecchia è che, leggendo su di lui ho l’impressione che fosse un tipo sfuggente, poco inquadrabile, e questo deve aver contribuito alla confusione sul suo merito. Bottecchia non era un tipo da interviste e luci del sipario. Ed in più di un’occasione ho avuto l’impressione che non fosse in realtà tanto amato, soprattutto nell’ambiente ciclistico.

Innanzitutto perché arriva alle corse tardi, passa professionista a 28 anni, e morendo a 33 è chiaro che non ha avuto una lunga carriera da pro, peraltro con solo 3 anni veri di successo. È vero che prima aveva corso da dilettante (2 anni), ma i suoi primi risultati cominciano ad arrivare solo nel 1920 (vittoria al Giro del Piave).

Poi perché era veneto, ed all’epoca il ciclismo in Italia aveva il suo baricentro in Piemonte e Lombardia. I campioni e le squadre importanti dell’epoca erano piemontesi o lombarde (Girardengo, Binda, Ganna, Azzini, Aimo, Rossignoli, etc.). Oggi si direbbe che un veneto era un outsider.

Sarà proprio Luigi Ganna che lo farà passare professionista nella propria squadra (su indicazione di Teodoro Carnielli, imprenditore di Vittorio Veneto) la Ganna-Dunlop, nel 1922, dopo un 2° posto di tappa al Giro d’Irpinia e Sannio e l’8° posto al Lombardia. Cosa che viene spesso citata a evidenza del grande fiuto di Ganna, ma in realtà Bottecchia venne messo sotto contratto per una paga modestissima, e con lo scopo di fargli fare solo il gregario. Ganna gli fornisce una bici da corsa, la prima “vera” di Bottecchia, ma facendogliela pagare a rate.

Bottecchia corre da amatore prima di passare professionista, ma nel vero senso della parola: partecipa a gare locali sotto le insegne della Unione sportiva Pordenonese, e si allena nei ritagli di tempo, perché nel frattempo lavora: carrettiere (a Caporetto, dove con i fratelli sgombera i luoghi dai rottami bellici), venditore di granaglie (come il padre), boscaiolo (al Pian del Cansiglio, dove nasce la leggenda che si facesse la salita da Fregona con una fascina di legna attaccata dietro la bici, leggenda smentita dalla sua famiglia), quindi muratore emigrato in Francia, a Clermond-Ferrand, dove pare che salisse in bici al Puy-de-Dôme la sera dopo il lavoro.

Prima di allora Bottecchia aveva dovuto combattere nella prima guerra mondiale. Bersagliere ciclista, portava comunicazioni e dispacci dal fronte alle retrovie. Fu catturato tre volte e tre volte riuscì a scappare. Non con fughe alla Steve McQueen tuttavia, ma essendo stato catturato da pattuglie a piedi di notte, si buttò nella boscaglia e non visto se la svignò. Venne decorato con una medaglia di bronzo al valore. Che da qualche parte diventa d’argento, la quale invece fu guadagnata dal fratello. Nel 1918 contrae la malaria, ma ne guarisce. Insomma una vita dura, proveniente da una famiglia molto povera, ultimo di otto fratelli (da cui il fantasioso nome).

Nel 1923 arrivò 5° al Giro d’Italia, vinto da Girardengo, il camiponissimo. Bottecchia fu il primo degli “isolati” o “indipendenti”, ovvero amatori senza squadra. Un exploit che gli valse l’attenzione di Aldo Borella, corrispondente da Parigi della Gazzetta dello Sport prima e del Corriere della Sera poi, ma anche informatore e spia dell’OVRA, la polizia politica fascista, il quale segnala Bottecchia alla dirigenza dell’Automoto, una delle squadre francesi più forti dell’epoca, per il prossimo Tour de France.

Bottecchia sbarca a Parigi il 21 giugno 1923, in compagnia di Giuseppe Santhià (vincitore del Giro del Piemonte 1914 e di 9 tappe al Giro d’Italia) anche lui in cerca di fortuna. Lo accoglie Fabio Orlandini, altro corrispondente parigino della Gazzetta dello Sport, che faceva anche da intermediario in Francia per i ciclisti italiani. Orlandini pare sia rimasto sconcertato alla vista di Bottecchia, vestito da contadino in trasferta (pare indossasse una sgargiante camicia a righe gialle e nere). Porta Bottecchia e Santhià alla Automoto e li lascia li.

Il direttore della Automoto-Hutchinson, Monsieur Pierrand, non ci rimase molto meglio, pare, alla vista di Bottecchia, il quale ovviamente non parlava francese e di carattere era taciturno. Pare che abbia liquidato la faccenda dicendo ai suoi collaboratori di dargli una “bici ordinaria, e di metterlo sotto contratto per 3 tappe, che tanto non sarebbe andato più lontano“.

Nel 1923

Bottecchia viene ingaggiato per 2000 franchi per ogni tappa conclusa, vitto e alloggio garantiti. Bottecchia viaggia con una valigetta gialla in cui ha tutte le sue cose, e gli garantiscono che la troverà ogni sera all’hotel del traguardo. Prima della partenza conosce Alphonse Baugé, ex corridore (campione europeo e francese stayer 1896) ed allora giornalista a L’Auto, il giornale organizzatore del Tour. Pare che Baugé dopo l’incontro abbia detto: “Faremo tardi la sera per attendere quei due. Lo sento, sono fanalini di coda“.

Santhià si ritirò alla 7^ tappa. Bottecchia arrivò 2°, vincendo la 2^ tappa, Le Havre-Cherbourg, 371km, e vestendo per 6 giorni la maglia gialla. La vittoria finale andò al suo capitano, Henri Pellissier, con 30’41” su Bottecchia.

Ora, è facile immaginarsi, l’effetto dell’exploit di Bottecchia. In primis sui francesi, che si vedono arrivare secondo, nella corsa regina di casa, un tizio assolutamente sconosciuto. All’interno della squadra Automoto, che oltre a capitan Pellissier, contava su uno squadrone, con, tra gli altri, Francis Pellissier, fratello di Henri, il più giovane in squadra assieme a Bottecchia, a 29 anni, Honoré Bartelemy, i belgi Hector Heusghem (2° assoluto nel 1920 e 1921), Lucien Buysse, che vincerà il Tour 1926 e Robert Jacquinot, più volte maglia gialla.

All’arrivo della tappa di Briançon nel 1923

Gli unici italiani in squadra erano Bottecchia e Santhià, il quale era torinese, e Bottecchia presumibilmente si esprimeva in solo dialetto veneto. Forse aveva imparato un po’ di francese ai tempi di Clermont-Ferrand, ma non credo andasse oltre poche parole. Che Bottecchia parlasse solo in dialetto veneto può essere corroborato dal fatto che durante il Tour 1923 Bottecchia venne pagato per raccontare la sua esperienza in corsa sul Guerin Sportivo. Il Diario di Bottecchia apparve sulle pagine del GS scritto in dialetto veneto. Ogni pezzo era firmato “Tavio Boteséla“.

Nella cronaca del 27 giugno, Boteséla scrive: “El xe vero che gò magnà poco perché qua el me dialeto no i lo capisse e par quante ostie gàbia smocolà no so sta bon de farme dar un toco de poastro“, etc…. Viene il sospetto che Bottecchia non si sia fatto delle grandi chiaccherate durante quel Tour, nemmeno con Santhià, torinese, o con Panosetti, meccanico/massaggiatore tuttofare della Automoto, di origine toscana.

A questo si aggiunge che Bottecchia non si presentava particolarmente bene, nemmeno tra i consumati veterani del Tour e della Grande Guerra. Vari giornalisti ne sottolinearono l’aspetto e l’abbigliamento (“aveva un vago odore di formaggio caprino“, scriverà un inviato) e le sue maniere, in particolare a tavola.

Bottecchia al rifornimento di Bayonne al Tour 1926

Bottecchia però, sopravvive a tutto questo, e senza grandi problemi. Non è uno con un grande ego, e ad un’intervista alla Gazzetta dello Sport, dichiara (sempre in dialetto) che lui è li per lavoro, perché la moglie è incinta e va nutrita e che quindi a lui interessano gli sghei (soldi, in veneto) e basta. Che questo atteggiamento gli sia stato molto utile è probabilmente stato il segreto del suo tardivo successo. Già al Giro aveva seguito alla lettera i consigli del Luisin Ganna, che gli aveva detto di stare sul suo e di non mettersi in mezzo alla battaglia tra Maino e Legnano, tra Girardengo e Aimo.

Bottecchia nel 1923

Il secondo posto al Tour però lo proietta sulle prime pagine. Finalmente arrivano gli sghei, come sempre grazie ai contratti per correre su pista, in cui in realtà Bottecchia aveva pochissima esperienza, tanto che era terrorizzato dal cadere. E la fama. Più all’estero che in Italia però. Il famoso Botescià con cui veniva chiamato sulle strade del Tour gli fu affibbiato dalla grande comunità degli emigrati, di cui lui stesso aveva fatto parte, e che vedevano nel Botesèla il sogno di rivincita.

In Italia la Gazzetta dello Sport lanciò una sottoscrizione per premiare, in sghei, Bottecchia, “povero muratore veneto”. Raccolgono 61725 lire. La prima versata è di Benito Mussolini, e questa viene incastonata nella pergamena che accompagna il premio.

Bottecchia è contento? Cosi si esprime sulla faccenda sul Guerin Sportivo, lamentandosi che ora non lo lasciano in pace : “La colpa la xe piutosto della Gazeta che la poeva far de manco de tirar fora i ati de nassita e tute le benemerenze de la mi fameia. Cossa la sà sognà de scorlarme in quel modo l’albero genealogico?! […]E me par che tuti quei francheti par omo che i gà sotoscrito i sia come tanti fiori de una corona funeraria. Basta che i me porta ben, e po…che i fassa lori.”.

Si, perché in Italia, un argomento era proprio di dove fosse Bottecchia. Tanto che la Gazzetta dello sport pubblicò certificato di nascita e di residenza. Il tutto nacque dal contendersi, molto italianamente, i natali del nuovo campione: ogni sindaco di Conegliano, Pordenone, Vittorio Veneto, Colle Umberto lo voleva suo. Mentre nel frattempo cominciava a circolare la storia che fosse mezzo francese, perché nel 1918 tutta la zona era sotto il comando francese del maresciallo Foch, ed una balia di Bottecchia, Lucia Gaudin, aveva avuto una relazione con un fante transalpino. Ad un certo punto viene pure fuori la storia che fosse discendente di un caporale francese che dopo Austerlitz si fermò a Vittorio e si sposò con una locale. Il caporale Bottéche.

Chiacchere di paese insomma, ma abbastanza per far circolare persino delle canzoncine in cui si definiva Bottecchia mezzo francese.

Nemo profeta in patria, quindi, in particolare per uno che in Italia non aveva vinto niente, e anzi, era andato “quasi” a vincere in Francia. A questo si aggiunge che ai campioni italiani bruciava che questo sconosciuto si fosse messo in luce in una corsa in cui gli italiani non avevano mai brillato. In particolare Girardengo, che invece le luci dei riflettori le amava parecchio e che sto contadino veneto lo mettesse in ombra non gli andava giù.

In azione. Bottecchia era 174cm per 72kg

Bottecchia cerca di rimanere coi piedi per terra, e più che chiamare la figlia appena avuta “Fortunata Vittoria” viene difficile fare…ma l’invidia è brutta bestia e molti rimarcano le non grandi prestazioni (ma ben remunerate) in pista. Insomma, tanti lo prendono per un bluff. Non ultimo un po’ di sana invidia gli arriva dalle mura di casa, infatti, come spesso capita, l’improvvisa agiatezza fa storcere il naso ai tanti fratelli e numerosi nipoti, amici, vicini e compagnia. Tanto che Bottecchia se ne va da San Martino di Colle Umberto e va a vivere a Pordenone, via Maniago 5.

Nel frattempo cominciano anche a circolare voci sulle simpatie politiche di Bottecchia. Chi lo vuole socialista, chi comunista, chi fascista. Si parla di incontri all’estero con anarchici…anche se viene strano pensare che il nostro Boteséla, cosi attaccato ai sghei, e impegnato a farsi 300km al giorno avesse tempo per discutere di anarchia…tant’è. L’unica tessera che prese Bottecchia fu quella del fascio delle camice nere di Vittorio Veneto al rientro in Italia. D’altronde l’eroe della prima guerra mondiale che ora arriva 2° in terra straniera difficilmente poteva sfuggire dall’aver vinto “non per se, ma per tutta la gioventù italiana che vuole rispettata a ogni costo la nostra sacra bandiera!“, come recitò la cronaca de La Camicia Nera di Treviso.

C’è chi giura che Bottecchia fosse socialista, ma a me sembra che più che altro fosse uno solo tirato per la giacchetta da tutte le parti, come spesso accade. Un aneddoto divertente e folle per far capire la cosa, riguarda una celebre foto che ritrarrebbe Bottecchia, a Rimini (!), in compagnia di Grigori Zinoviev, rivoluzionario russo, membro del politburo all’epoca, Amedeo Bordiga, uno dei fondatori del PCI, e Thomas Edward Lawrence, meglio noto come….Lawrence d’Arabia.

Questa foto non l’ha mai vista nessuno ovviamente, anche se ci sono persone che hanno indagato anni su di lei. Ad ogni modo, questa foto apparve all’improvviso negli anni ’50 nello studio di Demos Bonini, pittore riminese amico di Federico Fellini, poi scomparve, per riappare come dipinto di Guido Acquaviva, altro pittore riminese, che ne fa però una specie di caricatura “stile Botero”. Bottecchia vi apparirebbe in maglia Alcyon, squadra per cui non corse mai.

Il 1924 è l’anno della leggenda. Bottecchia vince il Tour de France tenendo la maglia gialla dalla prima all’ultima tappa. È il primo italiano a vincere la Grande Boucle, e solo uno dei tre corridori nella storia ad aver tenuto la maglia gialla dalla prima all’ultima tappa assieme a Nicolas Frantz (1928) e Romain Maës (1935).

20 luglio 1924, Bottecchia fa il suo ingresso al Parco dei Principi a Parigi

 

È anche il Tour dell’intervista di Albert Londres ai fratelli Pellissier, “forzati della strada”, che apre poi la mai finita polemica sul doping.

In Italia lo scetticismo e l’invidia non si sopiscono, anzi. Girardengo e Brunero sono sempre più acidi nei confronti di Bottecchia. Girardengo è il campionissimo, e che qualcuno lo metta in dubbio lo fa infuriare. Bottecchia nel frattempo in Italia non corre e non vince, e questo alimenta le malelingue. Bottecchia spiega che per contratto è obbligato a correre il Tour e che in primavera è fuori forma, mentre dopo il Tour, oltre ad essere bollito, monetizza su pista, quindi resta poco da correre in Italia. Questo “snobbare l’Italia” comincia a prendere tinte fosche. Lo si capisce da lettere indignate al Guerin Sportivo e da malumori nelle case del fascio. O cosi almeno si scrive sui libri.

Da sinistra: Linari, Girardengo, Bottecchia e Bestetti al Vel d’Hhiv a Parigi.

Al Tour 1924, alla 9^tappa, Tolone-Nizza, in maglia gialla è quindi Bottecchia, ma in corsa il giallo non si vede. Bottecchia non indossò la maglia gialla, in favore di quella violetta della Automoto. La spiegazione dell’Ottavio fu che non voleva essere travolto dai connazionali a Nizza, città con una comunità italiana enorme. Ma anche perché Bottecchia prima di quella tappa ricevette una lettera di minaccia: “Fascista, la pagherai!“. E lui, che i problemi non se li andava a cercare, avverte Desgrange (che Boteséla chiamava per vaga assonanza Do’-n’aranze -due arance, in dialetto veneto-), il patron del tour, che gli concede di non indossare la maglia gialla.

La sportività di Desgrange

È vero che se i francesi tributano non pochi complimenti a Bottecchia, i giornali italiani sono meno roboanti. Emilio Colombo della Gazzetta dello Sport, titola: “Il valore di un grande atleta ed una superba affermazione”. Nell’articolo aggiunge però: “È onesto dichiarare che dopo Perpignano Bottecchia non fu più l’uomo delle prime sette tappe”. Maglia gialla dalla prima all’ultima tappa, Bottecchia vinse con 35’36” di vantaggio su Frantz e 1h32’13” su Buysse. Vinse 4 tappe. La terza fu quella di Perpignan sui Pirenei, ma poi vinse l’ultima, Dunkerque-Parigi, 343km. Poteva fare di più?!

Nel 1925

Nel 1925 Bottecchia si ripete: 4 tappe e vittoria al Tour. È il primo Tour in cui è permesso aiutarsi ai compagni di squadra. Bottecchia è il 4° corridore della storia a fare la doppietta consecutiva, dopo Lucien Petit-Breton, Firmin Lambot e Philippe Thys. Vince davanti Buysse e Aimo rifilando 56 minuti al secondo e 58 al terzo.

Bottecchia ed il belga Verdycke all’uscita dal tunnel del Télégraphe

Bottecchia non è più un poareto, anzi, fa soldi a palate, con l’amico Teodoro Carnielli incassa le royalties per le biciclette che portano il suo nome. Gira in limousine con l’autista. Tra Colle Umberto e Pordenone, che all’epoca non erano propriamente la Beverly Hills italiana, il che forse non gli attirò grandi simpatie.

Vince ancora un paio di corse a cronometro assieme a Costante Girardengo (gli sghei fanno passare sopra alle antipatie). Quindi gli abbandoni a Paris-Roubaix, Paris-Tours, Paris-Nantes e Tour de France nel 1926. Poi lo sfortunato 4° posto al Lombardia 1926, flagellato dal maltempo e dominato dal giovane Binda, astro nascente, il quale anche lui non dimostrerà mai grande simpatia (o rispetto) per Bottecchia. Infine la Bordeaux-Paris abbandonata nel 1927 a causa di un malore.

Quindi l’atto finale: la morte misteriosa.

Bottecchia uscì la mattina del 15 giugno 1927 per un allenamento, stranamente da solo, i suoi vari gregari dettero tutti forfait, a cominciare dal fidato Alfonso Piccin, che qualcuno da anche come suo cognato (forse, chissà). Fu trovato agonizzante lungo la strada che porta da Trasaghis a Cornino, in frazione Peonis, lungo il fiume Tagliamento. Morì dopo 12 giorni di agonia all’ospedale di Gemona.

Di versioni sulla morte di Bottecchia ce n’è una moltitudine, da quella ufficiale, malore e caduta, all’ assassinio per mano di un contadino a cui Bottecchia avrebbbe rubato l’uva (ma a Giugno è poco probabile), ad una discussione di politica finita male sempre con lo stesso contadino (Bottecchia fu trovato a terra nei pressi del casolare della famiglia Di Santolo). All’agguato da parte di un manipolo di camicie nere. All’agguato per mano di un sicario ingaggiato da malavitosi nel giro delle scommesse (una prima, non una ultima). La moglie restò sempre fermamente sulla caduta accidentale, d’altronde poco dopo la morte incassò un premio assicurativo di 500.000 lire liquidati con insolita celerità. E l’assicurazione copriva solo l’incidente.

19 luglio 1925, Bottecchia vincente a Parigi. Accanto a lui Buysse

Varie ed ovviamente contrastanti le testimonianze di chi partecipò all’agonia. Da un’infermiera dell’ospedale di Gemona che dichiarò che nei rari momenti di lucidità Bottecchia avesse pronunciato la parola “malore”. Avvalorata da una birra gelata servitagli da un oste la mattina dell’incidente. Ad un piccolo gerarca di Gemona, il capomanipolo Gino Casarotti, il quale fu identificato in un’indagine giornalistica come uno che si adoperò per scoraggiare le indagini dei carabinieri, insistendo che si avvalorasse la caduta accidentale.

La notizia della morte di Bottecchia nella 3^pagina de La Stampa. L’astro che era nulla.

 

La notizia della morte in prima pagina de L’Auto. Un uomo che è stato un grande corridore ed una sintesi vivente delle virtù che fanno un campione.

Altro testimone propenso al delitto politico fu il parrocco di Peonis, Don Dante Nigris, che però parlò di una “zuffa” con dei fascisti. Infine la testimonianza dei fratelli Di Santolo, i contadini del casolare che trovarono Bottecchia, i quali dichiararono di averlo visto cadere mentre si sistemava un cinghietto dei pedali. Poi lo videro rialzarsi, continuare per un po’ di metri e quindi fermarsi, appoggiare la bici ad un muretto (che infatti fu dichiarata intonsa, ma poi sparì nel nulla dalla casa della moglie) e quindi stramazzare. I Di Santolo se lo caricarono in spalla e lo portarono ad un’osteria dove fu chiamato un carrettiere per trasportarlo a Gemona, ma questo arrivò dopo molto tempo e lungo il percorso si fermò a farsi un goccio per il gran caldo.

Bottecchia morì come era vissuto: un po’ nell’ombra, taciturno abbastanza da poterlo catalogare come meglio si credeva, a simpatia o antipatia. Un antieroe che non riuscì a “godersi gli sghei e stare in pace”. Che è l’unico desiderio che aveva realmente messo per iscritto.

Una rara foto a colori

 

Di tutta la bibliografia su Bottecchia consiglio due libri, dai quali sono tratte gran parte delle informazioni riportate qui. Bottecchia il forzato della Strada. E Bottecchia l’inafferabile. Quest’ultimo un’indagine scritta come romanzo, ma più circostanziata di molti altri.

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Pubblicato da
Piergiorgio Sbrissa

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