Uno degli argomenti che personalmente trovo più affascinanti da leggere nel nostro forum sono le discussioni riguardanti le motivazioni personali al nostro sport. C’è una coscienza condivisa che il ciclismo sia uno sport “duro”, che richiede fatica, sacrificio, etc… Personalmente non credo che lo sia più di altri sport, nemmeno i vituperati (dai ciclisti) “giochi”: ogni attività per essere fatta bene ed in un certo modo necessita di sacrificio, duro lavoro, etc..
In uno stile molto efficace, un riuscito mix di teoria, storia e aneddoti personali e non, Alex Hutchinson (maratoneta di alto livello, ma anche PhD in fisica) descrive in questo libro lo stato attuale delle conoscenze riguardo al resistere/persistere, To Endure in inglese: Endure: Mind, Body, and the Curiously Elastic Limits of Human Performance.
Che lo sport di resistenza, sia corsa, ciclismo, alpinismo o altro sia più una questione “di testa che di fisico” è una cosa che ormai si da per assodata, ma in questo libro Hutchinson esamina la questione in modo molto dettagliato, fornendo sia un resoconto di come le conoscenze sulla fisiologia si siano evolute, dalla scoperta da parte di Berzelius nel 1808 dell’acido lattico sino al Nobel per la medicina di Hill e Meyerhof nel 1922 per i lavori sul metabolismo dell’energia muscolare, alla Vo2Max, al processo del Central Governor (“governatore fisiologico”) di Tim Noakes, che aprono i vari capitoli sulla psicobiologia e la capacità degli atleti di andare aldilà delle semplici capacità “muscolari”.
Ovvero la fatica non sarebbe qualcosa di “assoluto”, dipendente dalle sole capacità fisiologiche (cardiovascolari/muscolari), ma relativa, e data dalla continua modulazione rispetto tutti i feedback che il corpo riceve, siano fattori sensoriali, fattori di stress, etc.. Nel libro si menzionano vari test che sono stati fatti in questo senso, da quelli che interessano aspetti “motivazionali” (in un esperimento francese si dovevano fare dei piegamenti sulle gambe fino ad esaurimento, la media del tempo massimo è raddoppiata dopo che alle cavie è stato offerto un premio in denaro maggiore per ogni 20″ in più di esercizio) o di fatica mentale (far anticipare dei test su cicloergometro da compiti faticosi a livello mentale su computer). Test che hanno dimostrato come la fatica mentale riduce la resistenza alla fatica mentre i valori fisiologici (lattato, Vo2max, etc..) rimangono identici. E contrario, con test in cui la prestazione è stata migliorata grazie a stimoli motivazionali, sia espliciti (incoraggiamenti) che subliminali. Test condotti dal Prof. Samuele Marcora (ex centro Mapei) dell’università del Kent.
Queste teorie hanno aperto nuovi confini per il miglioramento delle prestazioni, grazie ad una migliore comprensione di come funziona il rapporto psichico e fisiologico negli sport di resistenza e quindi trovando programmi di allenamento più efficaci, come l’adattamento ai feedback psicologici che gli atleti ricevono grazie ad esercizi che migliorano l’adattamento alla fatica mentale. E poi chiaramente alla presa di coscienza che certi metodi, come la stimolazione cerebrale, in futuro potrebbe rientrare nei metodi dopanti.
Il tutto è spiegato da Hutchinson con un ottimo equilibrio tra tecnicismi e aneddoti intriganti, come la storia dell’ultramaratoneta Diane Van Deren, che per mitigare gli effetti dell’epilessia da cui era afflitta ha subito una parziale lobotomia, la quale l’ha privata della capacità di rendersi conto del passare del tempo, cosa che l’avrebbe aiutata a completare, prima donna in assoluto, la terribile Yukon Artic Ultra 300.
Un libro consigliato per tutti quelli che sono affascinati dall’idea di “fare qualcosa di molto duro senza considerarlo di particolare valore, e finiscono per amarlo”.
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