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Marc Madiot: “Stiamo trasformando i corridori in robot”

Marc Madiot, team manager della Groupama-FdJ, uomo dal carattere impetuoso e comunicatore senza filtri, si è lanciato in dichiarazioni decisamente contrarie alla tendenza ormai diffusa del “sempre connesso” (una tendenza che va ben oltre i confini del ciclismo).

Andando frontalmente contro quello che consorzi come Velon stanno cercando di fare per spettacolarizzare il ciclismo, Madiot chiede di “proibire la geolocalizzazione dei corridori in corsa“. Il manager francese ha portato ad esempio l’incidente di Remco Evenepoel (Deceuninck) allo scorso giro di Lombardia, in occasione del quale un suo direttore sportivo ha affermato che il belga fosse “sparito dagli schermi”. Secondo Madiot i corridori “sugli schermi” non dovrebbero proprio starci.

La motivazione è che ormai i corridori sono controllati in permanenza, dagli allenamenti alle gare, e questo secondo Madiot porta uno stress supplementare ai corridori. Corridori che mancherebbero oggi di “spontaneità del gesto sportivo”, incapaci di reagire davanti agli imprevisti, innervositi dal non sapere cosa avranno davanti, in quanto costantemente aggiornati dalle ammiraglie anche su come affrontare una rotonda.

Madiot attacca anche “la paura del vuoto” che ossessionerebbe i corridori, che quando non sono in sella passano il tempo su Twitter, Strava e Instagram. Cosa che Madiot sembra non capire, in quanto ammette che ai suoi tempi da corridore (ricordiamo che Madiot ha vinto 2 Roubaix, nel 1985 e 1991) se c’era proprio una cosa che non si faceva era dire cosa faceva in allenamento. Oggi a suo avviso i dati dovrebbero essere nascosti e mai presentati “live”, in diretta. Contrario anche all’utilizzo delle radio in permanenza.

Madiot riassume il suo pensiero nella frase “stiamo trasformando i corridori sempre più in robot, che recitano una lezione imparata a memoria, e noi li correggiamo continuamente in tempo reale“.

Il Madiot-pensiero, che lui stesso ammette possa essere quello di “un vecchio idiota”, trova eco in una recente intervista de l’Equipe al suo capitano per le corse a tappe Thibaut Pinot, nella quale anche lui si lamenta del “ciclismo robotizzato”, e ricorda con nostalgia di quando, appena arrivato tra i pro “facevamo degli stages di ciclocross a dicembre, mentre ora siamo ad anni luce da quello”. E poi ricorda “i suoi primi Tour de France, quando 20 minuti prima della partenza si andava ad ascoltare le barzellette dei clown nei piccoli paesi. […] 10 anni fa cantavo con Arthur (Vichot) e Roupette (Anthony Roux) e mangiavamo le gaufre. Oggi si fanno i brefing per sapere come prendere la tal rotonda e da dove viene il vento. Ora a Dicembre devi essere già in condizione”.

Insomma, la nostalgia per il ciclismo “umano” di cui si parla in lungo ed in largo da anni. Che però, a ben vedere retrospettivamente era umano a corrente alternata.

Lasciando da parte il doping selvaggio degli anni -’80/’90 e quello scientifico venuto dopo, un punto importante è stato sollevato in questi giorni da Davide Cimolai (Israel Start-Up Nation), il quale ha avuto parole dure contro “la vecchia generazione”, quella che insegna, senza preparazione alcuna, ai giovani “a mangiare una mela dopo 5 o 6 ore di allenamento” (una famosa frase simile di Marco Pantani che era stata usata da Rapha per decorare una borraccia poi fortunatamente ritirata alle svelte dal commercio -a testimonianza di quanto una certa cultura sia incrostata nel ciclismo-).  Dando un colpo al portone dei disturbi alimentari, di cui lui stesso è stato vittima 12 anni fa “buttando 2 o 3 anni di carriera”.

Disturbi alimentari che sarebbero a dire del corridore friulano il “topic caldo” in gruppo, ma che appunto ha origini lontane. Disturbi che porterebbero molti ragazzi a smettere precocemente, a “bruciarsi” o, semplicemente, a correre sotto le proprie possibilità.

Nel complesso, comunque la si pensi sui temi specifici, la pressione psicologica globale a cui sono sottoposti i ciclisti oggi sembra essere divenuta molto pesante, con corridori che lasciano, sfiniti mentalmente e svuotati di stimoli, al culmine della carriera, come Marcel Kittel e Tom Dumoulin, in preda a problemi di depressione come Mark Cavendish 2 anni fa, o quella che ha portato al ritiro di Peter Kennaugh a 29 anni, sino all’estremo di Kelly Caitlin, 23enne, vice campionessa olimpica e tre volte campionessa mondiale nell’inseguimento a squadre, suicidatasi nel 2019.

A questo si aggiungono appunti i disturbi alimentari di cui recentemente hanno parlato lo sloveno Jani Brajkovic, che ha ammesso di essere stato affetto da bulimia per tutta la carriera (“mangiavo sino a 20.000 calorie di cibo al giorno, per poi vomitare sempre tutto”), incappando poi anche nell’antidoping risultando positivo alla metilhexanamina, con cui stava cercando di curare la bulimia. O del corridore francese Clément Chevrier, ex corridore di Trek e AG2R, ora ritiratosi, arrivato a pesare 49kg per 177cm, il quale racconta di come in certe squadre, durante gli stages, i corridori venissero pesati ogni mattina e prima dell’ingresso in sala da pranzo ed i pesi scritti su una lavagna visibile a tutti: “in pieno inverno mi nutrivo per dimagrire, mangiando solo insalata e frutta. Mangiavo aria“.

Versione più high-tech quella raccontata da Kenny Ellissonde, ex Sky, ora alla Trek-Segafredo, che racconta: “in certe squadre quando presenti la tabella dell’allenamento del giorno la inseriscono in una applicazione che ti dice cosa devi mangiare. A colazione, se pesi qualche grammo di troppo ti tolgono il cibo dal piatto. Come non si può non diventare ossessionati dal cibo?“.

Secondo Chevrier è per questo che le carriere dei corridori sono sempre più corte.

 

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Pubblicato da
Piergiorgio Sbrissa

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