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Remco Evenepoel ed i suoi duri esordi nel calcio

Remco Evenepoel (Soudal-QuickStep) è praticamente un predestinato da quando era bambino. A 4 anni ha iniziato a giocare nelle giovanili dell’Anderlecht, a 11 in quelle del PSV Eindhoven, per poi tornare nell’Anderlecht, dove però la sua carriera calcistica si è arenata. Da li la decisione di darsi al ciclismo. In soli 5 anni da junior a pro ha vinto in un anno Liège-Bastogne-Liège, Vuelta España e campionato del mondo, e lui stesso commenta in un’intervista a L’Équipe:

Se un corridore ha una stagione come questa, la sua carriera è fatta. Ed così anche per me. Nessuno me la porterà via. Ma potrei non avere mai più una stagione a questo livello. Quando ripenso al 2022 mi piace pensare a tutte le battaglie che ho combattuto per avere quei risultati. In futuro con la mia squadra l’obiettivo è vincere i tre grandi giri. La Vuelta che abbiamo vinto è stata la migliore preparazione e un passo verso gli altri due. In ogni caso è stata la sorpresa più grande e la mia gioia più grande della stagione“.

Remco ha spiegato poi il perché non correrà il Tour de France: “non la corsa più dura per il percorso, ma quella con più pressione“, con tutti che vogliono stare davanti, gli sponsor costantemente pressanti, etc… e poi, per fare bene, servono “…almeno 5 gregari che siano quasi dello stesso livello del capitano. Corridori che sarebbero capaci di una Top5. Al Tour non si può avere nessun momento di debolezza. Negli altri giri un po’ di margine per recuperare invece c’è“.

Aldilà della sua trafila nelle giovanili di squadre importanti nel calcio però, poco si sapeva di quello che questo ha comportato per lui da praticamente bambino:

Ho iniziato a giocare a calcio a quattro anni, nell’Anderlecht, poi sono passato al PSV Eindhoven a 11 anni. E sono tornato ad Anderlecht, dove ho trascorso dieci anni della mia vita in totale. Ero un ragazzo di casa. Ho sempre dato il 100% per la mia squadra, per il club, per il calcio. Ero il capitano. Io ero il leader del gruppo. Poi loro hanno iniziato a mettermi in panchina o, a volte, non mi mettevano nemmeno in rosa. Quindi volevo delle risposte. Ho chiesto all’allenatore: “Cosa sta succedendo? Ho fatto qualcosa di sbagliato? Devi dirmelo, perché voglio lavorare sui miei errori, correggerli”. Non ho mai ricevuto una risposta. Mi hanno sempre detto: “Sì, va bene, continua così. Avrai la tua occasione”. Ma non sono mai tornato in squadra. A un certo punto mi sono detto: “Ok, è inutile”, sono partito per Mechelen. E ho provato un grande disgusto per il calcio, quindi è finita lì. Mi hanno deluso pesantemente.”

“[…]Mi hanno fatto male. Mi si è spezzato il cuore, l’Anderlecht era tutto per me. Dopo quel periodo ho iniziato ad indurirmi. Quando c’era qualcosa di negativo nella mia vita mi ci mettevo a testa bassa e andavo avanti. È successo dopo la mia caduta al Giro di Lombardia (2020 -ndr-, per esempio. Ho fatto la mia riabilitazione senza problemi. Se soffrivo continuavo ad andare avanti, a volte anche troppo. Ho ringraziato lo staff dell’Anderlecht perché mi hanno aiutato a capire cosa significa soffrire e ricominciare“.

Nell’Anderlecht in effetti non sono stati teneri con Remco. Un allenatore ha commentato cosi: “”Remco non avrebbe avuto la stessa carriera nel calcio come nel ciclismo”. Ma Remco la pensa diversamente e lo dice mostrando l’orgoglio che spesso si intuisce in lui: “Non lo penso, perché vedo molti ragazzi della squadra senior dell’Anderlecht, della mia età e con cui ho giocato. Quando li vedo giocare penso che potrei esserci anch’io con loro. Quindi sì, avrei potuto fare carriera nel calcio“.

Per chi pensa che la vita del giovane calciatore sia nella bambagia (mentre per il ciclismo parte sempre in automatico la retorica dell’eroismo e sofferenza) Remco racconta dei suoi anni da calciatore:

“Sono stato a lungo lontano da casa, da solo, a Eindhoven dall’età di 11 anni, in una famiglia ospitante. Questo mi ha dato molta maturità. Dovevo percorrere dieci chilometri in bicicletta fino alla stazione alle 7 del mattino, poi prendere il treno per venti minuti ed infine l’autobus per andare a scuola. Ma nei Paesi Bassi sono diventato davvero più maturo. Il pomeriggio ero solo in questa casa e dovevo essere disciplinato nello studio, nel calcio o anche solo nel mangiare correttamente. Quando si vive da soli in una casa a quell’età bisogna stare lontani dai guai, guadagnarsi la fiducia degli altri. E credo di aver imparato davvero in quel periodo a riflettere su me stesso“.

Ed anche il paragone tra la professionalità nel calcio e nel ciclismo (ricordiamo che Remco corre da 5 anni nei pro):

So che sono diventato professionista solo grazie al talento perché alle scuole medie mi allenavo come potevo, in base alle ore di scuola. Ma non appena sono passato professionista mi sono trovato in un altro mondo. Bisogna dormire, mangiare, bere e tutto ha un motivo. Si dorme bene, si mangia bene, ci si allena, si recupera e si ricomincia daccapo, fine. Oggi i giovani vengono preparati sempre più precocemente. A soli 18 anni sanno come allenarsi, mangiare e bere. Anche dormire comporta già delle strategie

Ma già nel calcio appunto aveva imparato la routine:

“Quando avevo 15 anni, andavamo a fare delle passeggiate mattutine per prepararci all’allenamento. Per quanto riguarda il cibo avevamo chef e piani nutrizionali. Tra i ciclisti ci sono quindicenni che fanno colazione con Nutella sul pane tostato! Ma le cose stanno iniziando a cambiare, (fiuuu, per fortuna… -ndr-) i giovani sanno allenarsi sempre meglio. Ciò che cambierà sono le carriere lunghe. Le persone hanno carriere di dieci o quindici anni, ma quelle di vent’anni scompariranno. A 33 anni avrò già una carriera di quindici anni perché sono diventato professionista a 18 anni. Per il corpo è già un’usura estrema“.

Riguardo la preparazione sempre più “scientifica” che sarebbe alla base dell’età sempre più ridotta dei nuovi ciclisti professionisti:

Si, ma bisogna essere interessati alla cosa, altrimenti non si impara nulla, non si sa cosa si sta facendo sulla bici. Bisogna conoscere i propri numeri. Ho sempre avuto un misuratore di potenza. Alla Vuelta mi hanno persino preso in giro dicendo che guardavo sempre i numeri. Ma non si trattava di questo, bensì dei dati di ascesa delle salite. Li guardo per misurare lo sforzo che devo fare. Ma è bene anche non guardare i numeri e decidere d’istinto. Tutto è molto pensato, ma l’azione del momento non è misurata, bisogna solo andare il più veloce possibile. L’esempio più recente è il Tour di San Juan. Durante una tappa avevo le gambe per arrivare tra i primi tre e a un certo punto mi è venuta l’idea, mi sono detto: “Devo andare ora”. E ci sono andato solo per vedere cosa potevo fare. Il gruppo è esploso, ma sono esploso pure io…”

Remco racconta poi come da quando è diventato campione del mondo e si è sposato abbia cominciato da aprirsi di più alle persone, che cerca di essere compiacente coi tifosi, che si prende qualche pausa senza dare di matto perché non si allena, e che ora quando fa uscite lunghe le fa sempre con qualcuno, mentre prima si allenava sempre da solo e non voleva nessuno con lui. Anche se a quanto pare il ciclismo non lo mette mai da parte nei suoi pensieri. I suoi compagni di uscite preferiti sono Greg van Avermaet e Mathieu van der Poel*: “…si tratta anche di avere degli amici. Nelle fasi finali di una gara è sempre utile avere un amico“.

*I padri di Remco e MvdP hanno corso da pro nella stessa squadra, la Colstrop-Concorde, negli anni ’90 (assieme anche al fratello del padre di Wout van Aert).

Una cosa che però ancora non sopporta sono i paragoni, in particolare quello che lo tormenta da inizio carriera:

“Nessuno potrà mai più essere paragonato a Eddy. Tutte le sue vittorie nello stesso periodo di tempo non potranno mai più ripetersi. Era un tipo di ciclismo diverso. Non è più la stessa cosa oggi. Per esempio oggi c’è Cian Uijtdebroeks (19enne della Bora-Hansgrohe -ndr-) che viene già paragonato a me, il che è molto strano. Non mi piace essere paragonato a nessuno. Non esistono due persone uguali sulla terra. Ecco perché ho problemi con i paragoni“.

Alla fine gli chiedono quale sarebbe il suo 11 ideale per la partita di calcio che “Velo Magazine” organizza tra corridori francesi e resto del mondo:

“...allora (elenca sulle dita) Greg (Van Avermaet) in porta (ha giocato da giovane come portiere nel Beveren). Anche Mathieu (van der Poel) ha giocato da giovane. Yves Lampaert ha fatto judo, quindi sarebbe bravo in difesa. E io stesso. Ehm… ma servono ragazzi che non siano ciclisti puri. Prendo Ilan Van Wilder che ha praticato il nuoto, anche lui è un po’ forte. E ragazzi veloci. Non sono sicuro che uno come Tadej (Pogacar) sia bravo nel calcio. Ma lo prenderò comunque perché visto che vince molto penso che sia un buon attaccante. È difficile… Ne mancano uno o due, ma datemi un po’ di tempo per riflettere e ve li dirò tutti“.

 

 

 

 

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Pubblicato da
Piergiorgio Sbrissa

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