Vive le Tour! Com’era il ciclismo nel 1962

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Il ciclismo di quando in quando è stato oggetto di attenzione anche da parte del cinema. Uno dei registi più famosi ad interessarsene è stato Louis Malle, che nel 1962 giro’ il piccolo documentario “Vive le Tour“, un documento preziosissimo per vedere in immagini a colori e con riprese di grande qualità, per l’epoca, l’interno del gruppo al Tour de France di quell’anno. Un Tour di livello assoluto, in cui gareggiarono tra i migliori corridori di ogni epoca: Anquetil, Poulidor, Bahamontes, Gaul, Van Looy, Nencini, Massignan, Baldini, etc.. etc..

Il documentario è visibile su Youtube:

Nel documentario si possono apprezzare alcune differenze sostanziali rispetto il ciclismo dei giorni nostri. A cominciare dai rifornimenti, in particolare quelli idrici, lasciati all’intraprendenza dei gregari che assaltavano letteralmente bar e osterie prendendo quello che trovavano, e ripartivano per andare a dissetare i compagni. Il tutto riempiendosi le tasche delle maglie di bottiglie di vetro (!). Nelle cronache del tempo, in particolare quelle del giornalista francese Antoine Blondin, la penna principale de L’Equipe sul Tour de France tra il 1954 ed il 1982, si possono ritrovare aneddoti curiosi che danno ancora di più idea dell’epoca, come l’aver visto un ciclista vittima delle sete bersi persino un biberon di latte preso ad un bambino lungo la strada. O, il caso di Dante Pepino, corridore della Legnano originario di Piove di Sacco, che si bevve in un’osteria lungo il percorso, davanti gli occhi increduli di Blondin, una bottiglia da 2lt di Champagne prima di ripartire (Pepino è morto l’anno scorso a 87 anni).

Dei caschi all’epoca nemmeno a parlarne, non per i motociclisti, figurarsi per i ciclisti, ma già si parlava delle cadute causate dalla motociclette. Nel documentario si commenta della capacità dei motociclisti al seguito di prevedere ogni manovra dei ciclisti, ma in realtà si vede anche Rik Van Looy, in maglia di campione del mondo, costretto all’abbandono dopo una caduta in cui venne a contatto proprio con una motocicletta. Al Tour dell’anno seguente fu invece un motociclista a morire, cadendo in discesa dal Gran San Bernardo.

È molto interessante apprezzare i ciclisti in discesa. Abituati a vedere le immagini dei professionisti oggigiorno la differenza pare evidente, a memoria dell’evoluzione della tecnica.

Viene data evidenza ad un problema che all’epoca era di grande attualità. Quello delle spinte in salite. Nel documentario si dice che le spinte “che lasciavano gli spettatori più esausti dei ciclisti” erano cosa riservata agli ultimi, al gruppetto. Ma questo era il risultato di una lunga campagna per eliminare il fenomeno che era iniziata decenni prima. Si può ammirare il cartello su una moto che dice di non spingere i ciclisti per non falsare la corsa. Il problema divenne pressante proprio in quel decennio, con l’introduzione delle immagini televisive. Fino agli anni ’50 le spinte non erano solo cosa per gli ultimi in classifica ed i tifosi organizzavano vere e proprie “catene umane” per spingere i propri beniamini in salita. Celebre “il treno” di cui Fiorenzo Magni godette sul Pordoi al Giro d’Italia 1948, e che nonostante i 2′ di penalità, gli consentì di vincere la maglia rosa (tra mille polemiche, ma senza prove tv).

Infine il doping. Nel documentario, ingenuamente, si parla di pratica “che sta uccidendo questo sport”. Malle non si poteva figurare quello che sarebbe venuto dopo, ma il Tour del ’62 fu particolarmente sugli scudi per il doping.

Nella notte prima della 13^ tappa Hans Junckermann (lo si vede sofferente in maglia della Wiel’s-Groene Leeuw) stette male. Era 7° in classifica generale (contro ogni pronostico). La sua squadra chiese ed ottenne una partenza ritardata per il giorno successivo, ma alla prima salita di giornata si ritirò adducendo la scusa di cui si parla nel documentario: avvelenamento da pesce guasto. Quel giorno 14 corridori si ritirarono adducendo la stessa scusa, tra cui Willy Schroeder (Flandria), allora in maglia gialla, e Gastone Nencini (Ignis). 4 erano della Wiel’s-Groene Leeuw, tanto che all’epoca si parlò dello “scandalo Wiel’s”.

Il patron del Tour, Jacques Goddet, parlò esplicitamente di doping, dichiarandosi convinto che quei corridori si fossero dopati per recuperare del tempo perso il giorno precedente nella cronometro. E minacciò che se corridori e massaggiatori non avessero smesso con “certe forme di preparazione” avrebbe introdotto delle ispezioni dopo-tappa negli hotel (che allora come oggi erano forniti dall’organizzazione). I corridori minacciarono uno sciopero di 15′, ma Jean Bobet, ex ciclista ed allora giornalista, li convinse a proseguire. Di Bobet però è la voce che ridicolizza l’episodio del pesce nel documentario.

Nel Gennaio 1963 venne organizzato il primo convegno sul doping, che fu il preludio all’introduzione dei primi controlli. Con l’introduzione dei  controlli Willy Schroeder venne trovato positivo nel 1972.

Particolarmente impressionanti sono le immagini di Giuseppe Zorzi (morto lo scorso Aprile a 81 anni), corridore della Ignis e compagno di Nencini, che si vede zigzagare e poi stramazzare a bordo strada. Immagini che purtroppo sono il preludio a quello che successe 5 anni dopo sul Mt. Ventoux a Tom Simpson. Simpson, che nel Tour del ’62 fu il primo corridore dell’Europa non continentale nella storia ad indossare la maglia gialla, alla 12^ tappa.

 

 

 

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