Ciclisti over 70

Bert5quant1

Etiamsi omnes, ego non
5 Ottobre 2018
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1) acciaio 1989 no brand, scassata, 2) entry level alu no brand, 3) Bianchi infinito cv telaio 2016
@alvan
Eccola... e la tua... c'è o sei in attesa?

 
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Bert5quant1

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Oggi dopo la solita assurda sedentarietà, 12 gg fermo, giornata tiepida, ora o mai più! 72,5 km per campi e risaie, viste tonnellate di aironi e ibis religiosamente dediti a seguire le mietitrebbiatrici per mangiare tutto quel che salta fuori.
Gambe un pò più toniche, d+ sui 220, media 26,2... e voglia, una volta a casa, di farne altri 20. Quindi ...ok!
Villarboit: Buronzo:
20240921_140614.jpg 20240921_153223.jpg 20240921_154200.jpg 20240921_154245.jpg 20240921_154410.jpg .... e 5 km prima di casa, un po' di "bucolica":
20240921_163710.jpg
 
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Bert5quant1

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Oggi 88 km tra risaie e città, per es Vercelli poi risalita in valsesia dal novarese.
Tempo ancora mite, un pò di vento, contro, da sud, scendendo, e 50% contro, da nord'est, salendo. Una classica virata del tardo pomeriggio, tipica maledizione del ciclista.
Balocco 20240929_142344.jpg

mietitrebbia e aironi in coda dietro 20240929_154321.jpg
Recetto: 20240929_161009.jpg
 
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Bert5quant1

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E due gg fa in montagna, tra 980 e 1320 di quota, un sentierino che non avevo mai fatto, verso sera... mi imbatto in un riparo completato addossando pietre ad un tetto di roccia, ma chi passava la notte li? Ne ho trovati uguali a 2200 m, il pastore, con le pecore fuori, si buttava dentro tra 4 pietre su cui portava un fascio d'erba... e ne usciva alle 5 di mattina. Roba di secoli fa, raccontatemi dai pastori moderni che da quelle parti hanno baite calde e il generatore... i disperati che facevano quella vita erano pagati (poco e male) per condurre le greggi, e non avevano né baite né casupole...
20240924_174841.jpg 20240924_174757.jpg 20240924_174908.jpg 20240924_180547.jpg 20240924_181840.jpg 20240924_184059.jpg
 
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golias

Factotum :-)
28 Marzo 2018
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E due gg fa in montagna, tra 980 e 1320 di quota, un sentierino che non avevo mai fatto, verso sera... un riparo completato addossando pietre ad un tetto di roccia, ma chi passava la notte li? Ne ho trovati uguali a 2200 m, il pastore, con le pecore fuori, si buttava dentro tra 4 pietre su cui portava un fascio d'erba... e ne usciva alle 5 di mattina. Roba di secoli fa, raccontatemi dai pastori moderni che da quelle parti hanno baite calde e il generatore... i disperati che facevano quella vita erano pagati (poco e male) per condurre le greggi, e non avevano né baite né casupole...
Vedi l'allegato 463752 Vedi l'allegato 463753 Vedi l'allegato 463754 Vedi l'allegato 463755 Vedi l'allegato 463756 Vedi l'allegato 463757
Mi fa riflettere però la frase "i disperati che facevano quella vita"
A volte ho l'impressione che ad essere disperati siamo noi che viviamo agiati.
 
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Mi fa riflettere però la frase "i disperati che facevano quella vita"
A volte ho l'impressione che ad essere disperati siamo noi che viviamo agiati.
Ci valutiamo disperati, eticamente e moralmente, in quanto non sappiamo dare valore a ciò che conta e inseguiamo materialità, pur avendo di tutto. Gran parte della società mondiale è disposta in questo senso ed il risultato è un evidente degrado. Non si fa nulla per il prossimo se non ce ne viene in tasca qualcosa. Allegria....
Beh, pochi o tanti, cerchiamo di essere diversi... anche se è più difficile non adeguarsi.
Pietro apostolo disse a Gesù "etiamsi omnes, ego non" lui non l'avrebbe né abbandonato né tradito, e non c'è riuscito...
 
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E pur avendo "tutto" vogliamo sempre di più.. in compensazione di cosa ?
Cosa ci manca per riuscire ad avere una certa armonia ?
Il giudizio indipendente insieme al pensiero attivo su tutto, senza accettare nulla di preconfezionato perché a quel punto non vedi più ciò che è giusto ma solo ciò che conviene, perché "avere" ha sostituito "essere"
Il contrario di "ma tanto lo fanno tutti"... perché a quel punto l'essere "noi stessi" è andato a ramengo.
 

golias

Factotum :-)
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Il giudizio indipendente insieme al pensiero attivo su tutto, senza accettare nulla di preconfezionato perché a quel punto non vedi più ciò che è giusto ma solo ciò che conviene, perché "avere" ha sostituito "essere"
Il contrario di "ma tanto lo fanno tutti"... perché a quel punto l'essere "noi stessi" è andato a ramengo.
In pratica devo apparire.. fa nulla se non sono ciò che appaio, e con questo metro di misura.. misuriamo e perdiamo il valore persino di noi stessi.
 

Bert5quant1

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Mi fa riflettere però la frase "i disperati che facevano quella vita"
A volte ho l'impressione che ad essere disperati siamo noi che viviamo agiati.
A proposito ecco il link ad un mio raccontino di anni fa, in cui cito, a quota 2200-2300, un riparo di pietre in cui qualcuno passava la notte.

 
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Passeggiata serale nei boschi, 7 km con la setterina.
Il rettile è una natrix dal collare, che ho preso per la coda per toglierla dalla strada e portarla qualche metro nel bosco. 40 cm, un povero esserino, innocuo e utile.
. 20241004_173107.jpg 20241004_172706.jpg 20241004_173334.jpg 20241004_175102.jpg 20241004_174349.jpg 20241004_180303.jpg 20241004_180911.jpg 20241004_181357.jpg 20241004_184113.jpg
 
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Umberto44

Gregario
22 Aprile 2009
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1.266
80
Torino
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Cube Agree C:62 Pro, Cube Nurod C:62 Race, Specialized Epic, Legnano Hobo
Caro Ennio, ho letto il tuo racconto e ne sono rimasto tanto colpito e coinvolto.... Mi ricordo di un paio di pastori che portavano le loro vacche ad un alpeggio in una conca in valle Po, vicino al sentiero che porta a Punta Sea Bianca, a metà tra valle Po e val Pellice...anche io , qualche volta ho dialogato con questi uomini che non ci sono più. Ma, purtroppo, più nessuno porta le vacche in alpeggio in valle PO.... Quanti bei e struggenti ricordi mi hai suscitato e che rimpianto non poter più calpestare le rocce, non tanto per la salita, quanto per la discesa...... Un grande grazie, con affetto......
 

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Anche stasera, con moglie che riprende a muoversi dopo prime cure ginocchio (menisco consumato), non male, 6 km calmi per i boschi lungo il fiume sesia ma ben tollerati. Immancabile la setterina...
20241005_161254.jpg 20241005_162623.jpg 20241005_165617.jpg
20241005_164302.jpg 20241005_172048.jpg 20241005_180841.jpg 20241005_182633.jpg
 

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Un raccontino relativo ad un altro pastore che annotai nel giugno 2015, per chi vorrà leggerlo.
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Storie vecchie di montagna - Festa Remo

 Era un giorno delle mie ferie di agosto, anno 1983 Avevamo promesso ad amici poco avvezzi alle lunghe escursioni una serie di visioni memorabili pur evitando di sfinirsi, pertanto salimmo a Indren in funivia per poi scendere a piedi ad Alagna, tanta strada ma niente salite. Dopo un caffé al bar della vecchia stazione di Indren (oggi chiusa) iniziammo a puntare allo Stolemberg, aggirandolo per arrivare all'istituto Mosso e poi al col d'Olen, passando anche per il Vigevano. Scendemmo il sentiero che porta al Foric, dove trovammo 1500 pecore sparse per i pendii, in parte sotto il passo in direzione di Pian Misura e Otro, in parte sui pendii laterali in salita verso Alpe Zube. Su una roccia lontana, a 3-400 metri dal passo e più in alto, verso Zube e contro il cielo, si stagliava la figura vigile di un pastore. Vedevo solo il busto spuntare dalla pietra, ed era sempre là immobile, statua viva tra le rocce e i prati. Al passo c'erano molti escursionisti di passaggio e vari s'erano fermati qui a fare lo spuntino: il colle è un riferimento, un punto di arrivo e di partenza, un segno di matita nella carta dell'anima che ti dice di fermarti, guardare, fotografare, mangiare, chiaccherare. La salita e la discesa, il fianco della montagna sono un tramite, un qualcosa che deve essere passato al meglio e in fretta, durante la salita su sentieri difficilmente ci sono punti notevoli, pietre miliari dello spirito che ti facciano fermare: al massimo gruppi di baite, laghetti... ma anche se c'è nulla, è sul colle o ancor più sulla cima che senti il bisogno di sostare, lì la montagna ti lavora dentro e ti fa sedere, almeno un attimo, perché fermarsi, ma solo al colle o alla cima, diventa la cosa giusta da fare. Il pastore aveva un cane che gli girava vicino, poi a un tratto esso venne giù al colle, veloce come questi cani sanno essere, aggirando pecore troppo lontane. Poi, soddisfatto di averle radunate, venne a girare tra noi. Nessuno tra i presenti lo accarezzò, la giornata era particolarmente affollata di gente poco confidente con i cani, mentre io e Grazia, abituati, tendemmo la mano con un pezzetto di panino e poi di cracker. Dopo qualche titubanza il cane mangiò e questo gli bastò ad avvicinarsi di più e lasciarsi toccare. Si beccò qualche coccola, che apprezzava. Rimase vicino a noi e non correva più da nessuna parte e da nessuno. Non ci accorgemmo di nulla, ma il pastore era lì a pochi metri da noi, era sceso con gamba forte, per vedere chi erano quelli che il suo cane aveva accettato. Mi venne spontaneo, e non lo facevo mai, di parlargli in dialetto, una premonizione? ... e lui rispose in dialetto. Questo inizio sciolse qualcosa perché sembrò sollevato e amichevole come se ci fossimo conosciuti già da prima, quel modo consueto di fare
Ci disse qualcosa della sua vita, il suo nome, Festa Remo, e che le pecore non erano sue, che era povero per comprare bestie sue, quindi faceva il pastore delle pecore di altri. Non parlò con gli altri escursionisti, solo con noi. Ci regalò in modo esclusivo il suo momento di voglia di compagnia, un previlegio che non dimenticai. Ci disse che aveva parenti a Gattinara e a Ghemme e fummo tutti contenti di questa comunanza sia pur lontana, di questa prova che il mondo è sempre piccolo.

Non incrociammo più i nostri passi con i suoi.
Passarono gli anni, trovai altri pastori sperduti a pascolare per mesi le greggi in alpeggi lontani, a quote sopra i duemila, pastori che, tutti, conoscevano il Remo, e a poco a poco costruii una mia "rete" di nomi, pochi, ma tutti legati dalla conoscenza reciproca.
Finché qualcuno mi disse che Remo era morto, povero come sempre, che i pochi soldi che guadagnava andavano tutti nel mese e fine.
Al Foric in quell'83 aveva al collo un binocolo Zeiss che gli era rimasto da militare. La vernice nera limata nei punti sporgenti lasciava intravedere il corpo in ottone. Lo portava sempre al collo, ovunque, non lo lasciava in baita.

Mi dissero che in una festa di paese, non ricordo se Rassa, Campertogno o chissà dove, dopo aver mangiato, e bevuto fors'anche di più, si addormentò, con il binocolo al collo, che non toglieva mai, come alcuni fanno con la collanina d'oro o con l'orologio. Una mano infame glielo rubò. Ho immaginato che da quel momento fino alla morte sia rimasto veramente più solo, e anche ferito.

Trovai i suoi parenti, e diedi loro la copia della foto scattata nell'83.
E penso ancora oggi che il suo spirito vada libero per i pascoli alti a dialogare in dialetto, ma solo con chi vuole lui.
Ciao Remo, ovunque tu sia.
passoForicFestaRemo.jpg

Ennio Bertona, 3.6.2015
 
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alvan

Apprendista Velocista
16 Agosto 2014
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1.780
Cagliari
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Dogma F disk
@alvan
Eccola... e la tua... c'è o sei in attesa?

Ogni tanto appaio e scompaio! Saluti a tutti ovviamente...
Sono in attesa... dovrebbe essere per ottobre, questa volta torno al bianco...
 

Bert5quant1

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Ogni tanto appaio e scompaio! Saluti a tutti ovviamente...
Sono in attesa... dovrebbe essere per ottobre, questa volta torno al bianco...
Attendiamo foto! Il bianco però, mamma mia, si vede tutto e basta un niente per farla sembrare sporca. Ho il muletto bianco ed ho perso la voglia di tenerlo pulito...
 
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Bert5quant1

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Vabbè, a gentil richiesta di nessuno... ecco il terzo racconto di montagna.
- - - - -
Storie vecchie in montagna
Federico Tiboldo, detto "Ricu" - 26/9/2015

Pianprato

dove dormiva il pastore:

Il "Ricu", 1985


Un altro ricordo, un'altra storia.
Tutto vero e vivo, dentro di me.

Era il 1983.
Ero salito da Piedicavallo al colle della Ronda, poi per un sentiero perfido al lago Lamaccia, quindi su al PianPrato, quota 2200, obiettivo colle Loo, per poi rientrare con una lunga traversata alla Mologna Grande, passare al Rifugio Rivetti e giù a Piedicavallo. Gran giro con valli, ruscelli, laghetti, panorami e incontri, talvolta. Talvolta animali, marmotte e uccelli vari, rare le aquile, rari gli eremiti, meno rari i gitanti.
In luglio-agosto incontri qualche altro girovago come te, ma se fai il giro in novembre, ti regala solitudine, quando anche l'acqua diventa silenzio, dopo aver smesso di schiaffeggiare le pietre, quando si prepara al suo letargo, il gelo. Con l'acqua, a novembre, si fermano i rumori, tranne il vento.
Ma quel giro dell'83 era di agosto e c'era qualcuno in giro, magliette e pantaloncini colorati, gioventù e zaini.
All'alpe Pianprato mi accolglie il segnale del cane vigile, che ti sente a distanze enormi e avvisa il padrone. Un abbaiare senza aggressività, ma deciso e intransigente. Poi passa lui, il pastore, con una tanica di plastica piena dell'acqua del Loo, per la baita. Ma s'era portato anche quella del vino, un bel 5 litri pieno a metà. Non lasciava la bevanda rossa in baita, se la portava appresso. Da quelle parti il vino è benzina, conforto, consolazione, e purtroppo a volte sostituisce un pasto regolare, e ti illude di pareggiare i conti con una vita di 4 mesi duri, tra dure pietre.
Lì, la sera ti viene addosso come una piccola condanna ripetitiva, a cui fuggi rintanandoti in un bivacco di pietre poco ospitali.
Al Pianprato ancora tra il 1980 e '90 non c'erano baite rivestite all'interno, e tantomeno case, ma solo muri di pietra con tante fessure continuamente percorse dal vento, dal freddo, da topi ed insetti. L'unico legno è la volta, o il pavimento se visto da sopra, tra la stalla e un minuscolo abitacolo superiore. Tavole senza materassi, dove l'unica imbottitura che smussa i dolori alle ossa è la paglia, che qui poi non è così abbondante; a questa quota l'erba è rada e bassa, ogni cosa che vuoi costa un pedaggio di lavoro, anche il pagliericcio per dormire. Le foto dei ruderi attuali (fatte nel 2010), dove prima abitava il pastore, mostrano a me, ancora oggi incredulo, come e dove passasse quei 4 mesi di solitudine, anno dopo anno.
Incredulo di come riuscisse a normalizzare solitudine, fatica, intemperie, sbronze e... i sogni, quali?
D'estate l'unico diversivo erano i pochi escursionisti, il suo istinto distingueva, presagiva quelli che non si fermavano a parlare, che al massimo rispondevano al saluto ma subito estinguevano quel breve tempuscolo dell'incontro, lentamente mettendo un piede dopo l'altro, come dire "lo vedi che non mi fermo, non dire altro, salutiamoci e basta così"
Ci si fa l'abitudine, dopo un po', e non si pretende la luna che non c'è; si puo' solo sperare che il vento cambi, almeno una volta tanto.
Quel giorno passavo io, era un giro da due giorni fatto in poche ore, quella volta volevo, dovevo correre ...
"bundì"... "chi l'è chiel" ... anch'io tiravo ad andare, ma lui insistette " dai, sètta giò 'n mument" ... si fece deciso forse perché non avevo molta roba colorata addosso. Allora, e adesso ancora meno, non curavo il look, spesso indossando maglie e pantaloncini col buco. Le scarpe no, quelle devono essere a posto. Contano quanto l'allenamento e la testa, quando vai in montagna. Nello zaino, poi, ho sempre due chili di indumenti extra, ma il look no, non c'è. Così lui insistette. E ci azzeccò.

Mi fermai un'ora, e anche se mi rodeva il pensiero che da là ce ne vogliono più di quattro solo per tornare in macchina, ed anche correndo, ed erano già le 17,... tuttavia continuavo a stare con lui.
Seduti entrambi sulle pietre con i cani, ormai quieti, a girarci intorno.
Un'ora volava, al Pianprato.
Questo luogo è un catino più orizzontale e piatto di uno stadio, lungo 400 metri, a 2200 di quota, e il ruscello Loo vi scorre disegnando anse ad 'esse' come fa il Mississippi raggiunta la pianura, nei documentari e nei film.
Un'ora volava, complice il Loo e anche l'aria fine, la voce del Ricu, la sua palese voglia di compagnia. Ricu, "sta per Federico, Federico Tiboldo", diceva.
In un'ora mi disse varie cose, che era di Tavigliano, che aveva parenti verso Buronzo, in posti che poi avrei scoperto, aprendo i libri di altre storie. Divagava su quella vita laggiù, d'inverno, sui figli rimasti giù e su parenti che facevano la stessa vita in altre vallate. Conosceva altri pastori e faceva nomi che io dimenticavo perché non li avevo ancora incontrati, nomi che poi avrei associato a mani reali da stringere e volti veri da rivedere, a ricordi da inseguire ... anni dopo.
Non parlava volentieri delle giornate lì in quota, era l'unico mestiere che sapeva fare, scuole interrotte da piccolo e lavoro, quel lavoro. Scelto per esclusione.
E ammirava quei suoi due cani che correvano al posto suo e non perdevano mai una bestia. Erano in gamba ed erano i migliori della cucciolata. I cani al lavoro nei vari alpeggi sono frutto di selezione e, ahimé, di scarsa pietà, perché le cucciolate sono un mix di talenti spontanei e di brocchi, e i brocchi spesso vengono soppressi. Perché stupirsene? Accadeva anche tra i ben meno poveri allevatori della pianura, o anche tra i cacciatori, gente che stava bene e non misurava le decisioni con la fame.

........... fine prima parte
 

Bert5quant1

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........ seconda parte


I pastori non facevano mica quella vita per sport, eh! Chi si trovava addosso questo lavoro, tra le pietre in alta montagna e in un'altissima solitudine, ereditava solo il gene istintivo della sopravvivenza. Anche le briciole andavano risparmiate.

Anche lui, dopo un'ora abbondante, accettò che me ne andassi. "Eh, adess at'rivi a ca' con la lüna". Annuii... In qualche modo mi arrangerò, pensai.
Arrivai all'auto in una notte benigna con un residuo chiarore che mi lasciava capire dove mettere i piedi e subito dentro di me decisi di tornare, prima o poi.

Fu due anni dopo, nel 1985 passai di là con macchina fotografica e diapositive, lo trovai ancora e mi riconobbe, con un perentorio "Ah, t'at fermi chi parluma 'n po". Due anni come fosse ieri.
Ormai sapevo quanto era prezioso regalare un po' di me alla solitudine, e mi fermai un'ora e mezza. Ricordo poco, del più e del meno che ci si disse, lasciavo che fosse lui a comporre i suoi pensieri, un puzzle che avanzava a fatica, con le tessere che spesso cambiavano posto, ma per lui funzionava così, ed io gli regalavo la compagnia, anche se avevo poco da dirgli.
Lavoravo da impiegato, allora ero uno che usava la penna, la sua sintesi fu tutta lì. Non sapeva bene quali lavori facessero coloro che sapevano usare la penna. Il concetto poteva immaginarlo ma solo confusamente, era un mondo quasi alieno, inattingibile. Che liquidava con quelle parole.
Ripassai nell'87 con due stampe delle foto ma già a metà settembre, trovai tutto deserto.
Passai altre volte negli anni seguenti, ma fuori dal suo tempo o forse nei momenti in cui era in giro su alture vicine, ricordo che mi disse che spesso andava sull'Altorre, una cima arrotondata a quasi 2400m, quella che si vede al centro della sua foto, e rimaneva lì anche la notte, in agosto, con le bestie intorno. Bastava una coperta e si stava bene.

Nel 2005 in val Gronda, all'alpe Salei, un altro incontro e un'altra futura storia, un cugino del Ricu, che mi dice che lui è ancora vivo ed abita sempre a Tavigliano...
Intanto il lavoro e il poco tempo libero mi fanno riaffondare nell'oblìo dei propositi inattuati... finché torno al Pianprato in agosto 2008 e trovo un nipote. Vedo che hanno riparato una baita e costruito un mini abitacolo, in giro pecore e mucche. Mi dice dove abita il 'Ricu', ormai vecchio e poco abile, ... mi sorprendo a pensare che ho quasi paura di affrontare in un colpo tutti quegli anni, lo schiaffo della diversità che l'invecchiare ti sbatte in faccia.
Il tempo è più forte di un giudice e dei governi, è più secco delle prediche della domenica. E' una legge inesorabile, che viene sempre applicata, definitiva.
Consumo altri due anni, finché ogni cosa riaffiora in me con la forza perentoria che rende inevitabile fare qualcosa. E' giugno 2010, vado a Tavigliano e chiedo a varie persone, trovo il parroco per la strada, lo chiamo, ascolta il mio racconto con evidente e crescente allegria, soddisfatto della mia iniziativa, e mi orienta. Arrivo ad una casa già verso i prati, mi presento a una coppia sui 50, sono un figlio del Ricu con la moglie, spiego quel lontano passato e tiro fuori le foto...
"sì, è lui, è qui, adesso lo chiamo" ... e arriva un vecchietto di 81 anni, è il Federico! Riconosco i tratti del viso, pur cambiati.
È un allegro vecchietto a cui i figli controllano dieta e gesti, ma sta bene.
Parla del Pianprato, non ricorda più quei miei passaggi lontani ma in un attimo sfodera i nomi dei cani della foto, come li avesse ancora lì. E' lucido ma poco abile, è un po' ridiventato bambino, secondo un destino che spesso si ripete. Rimase al Pianprato fino al '93 poi andò in pensione, con qualche indugio di troppo in osteria. Bere tanto e mangiar poco fa male.
"Bisogna tenerlo d'occhio" dice la nuora, ed io "Ma come, ti fai comandare?" e lui ride di gusto, le battute più semplici sono quelle giuste, e solo quelle vanno bene.
Gli parlo dei pastori conosciuti dopo, i suoi cugini Lorenzo e Giuliano, il Festa Remo, il Canova, ... sì, li conosce tutti, io dico solo "Canova" e lui aggiunge "il Giovanni". "Giusto", faccio io. Mi parla di un altro cugino, su all'Alpe Mologna, al lago Riazzale, gli dico che sono posti che ben conosco, e gli prometto di fare il giro dei suoi vecchi posti, per fare le foto e portargliele nell'autunno.
Mi stringe la mano a lungo, come fossimo ancora al Pianprato nell'85, quando sapeva che dovevo andare a casa perché veniva notte, ma allo stesso tempo voleva fermarmi ancora. "Anco' an minut!" Minuti come le ciliegie. Minuti che a quell'età valgono ore.
Lo vedo tra gente buona e paziente, percepisco che sta bene, così sto bene anch'io. Saluto e ripeto la promessa.
A fine settembre faccio il gran giro e foto dalla Gronda al lago Seia, traverso al Pianprato e ritorno a Rassa, il 6 novembre ritorno a Tavigliano.

Il figlio sta lavorando in cortile e ... "I suma staralu al dui nuvember !"
I prati colorati dal sole mi si offuscano in una nebbia di bianco e nero, un rivolo di ghiaccio mi traversa il cuore. Una vita in meno da incontrare, una lapide in più.
Una vita che si riduce ad un racconto. Anzi, ad un sacro ricordo.
Sono andato al cimitero, c'era una foto provvisoria, l'unico modo di rivederlo. Altrimenti i miei ricordi.
Il ricordo resta ma è un prodotto del pensiero, e se non sei famoso, resta per qualche anno in poche persone, viene a galla sempre più di rado, poi muore con quei pochi, e per sempre.
Il ricordo è una candela, diventerà un moccolo e alla fine, l'ultima fiammella.
Per questo annoto questi ricordi, perché possano toccare la sensibilità di qualcun altro, perché possano contagiare, perché almeno uno, se ne avrà l'occasione, deponga per un'ora le sue frette, senza guardare l'orologio, e si renda amichevole e disponibile a un pastore che, magari con le idee un po' confuse o un linguaggio un po' approssimativo, ti ferma sui sassi di una baita a casa del diavolo.

La mia ormai è forse la visione di un tempo e modi di essere che non esistono più, ne son passati di anni ed è cambiata anche la gente che porta le bestie in montagna. Quelli che incontri adesso, anche a quella casa del diavolo, hanno il satellitare e dialettiche ben più evolute. Però ti parlano volentieri. Un po' la storia vale ancora, se sai fermarti ed offrire un attimo di te e di nulla.

Consegno questo mio ricordo ad una sua vita, mi illudo? Forse, ma credo che seminarlo 'in giro' sia come sostituire il moccolo che sta per finire con una candela nuova che duri un'altra vita.

Ennio Bertona
 
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yagone64

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29 Settembre 2015
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Vabbè, a gentil richiesta di nessuno... ecco il terzo racconto di montagna.
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Storie vecchie in montagna
Federico Tiboldo, detto "Ricu" - 26/9/2015

Pianprato

dove dormiva il pastore:

Il "Ricu", 1985


Un altro ricordo, un'altra storia.
Tutto vero e vivo, dentro di me.

Era il 1983.
Ero salito da Piedicavallo al colle della Ronda, poi per un sentiero perfido al lago Lamaccia, quindi su al PianPrato, quota 2200, obiettivo colle Loo, per poi rientrare con una lunga traversata alla Mologna Grande, passare al Rifugio Rivetti e giù a Piedicavallo. Gran giro con valli, ruscelli, laghetti, panorami e incontri, talvolta. Talvolta animali, marmotte e uccelli vari, rare le aquile, rari gli eremiti, meno rari i gitanti.
In luglio-agosto incontri qualche altro girovago come te, ma se fai il giro in novembre, ti regala solitudine, quando anche l'acqua diventa silenzio, dopo aver smesso di schiaffeggiare le pietre, quando si prepara al suo letargo, il gelo. Con l'acqua, a novembre, si fermano i rumori, tranne il vento.
Ma quel giro dell'83 era di agosto e c'era qualcuno in giro, magliette e pantaloncini colorati, gioventù e zaini.
All'alpe Pianprato mi accolglie il segnale del cane vigile, che ti sente a distanze enormi e avvisa il padrone. Un abbaiare senza aggressività, ma deciso e intransigente. Poi passa lui, il pastore, con una tanica di plastica piena dell'acqua del Loo, per la baita. Ma s'era portato anche quella del vino, un bel 5 litri pieno a metà. Non lasciava la bevanda rossa in baita, se la portava appresso. Da quelle parti il vino è benzina, conforto, consolazione, e purtroppo a volte sostituisce un pasto regolare, e ti illude di pareggiare i conti con una vita di 4 mesi duri, tra dure pietre.
Lì, la sera ti viene addosso come una piccola condanna ripetitiva, a cui fuggi rintanandoti in un bivacco di pietre poco ospitali.
Al Pianprato ancora tra il 1980 e '90 non c'erano baite rivestite all'interno, e tantomeno case, ma solo muri di pietra con tante fessure continuamente percorse dal vento, dal freddo, da topi ed insetti. L'unico legno è la volta, o il pavimento se visto da sopra, tra la stalla e un minuscolo abitacolo superiore. Tavole senza materassi, dove l'unica imbottitura che smussa i dolori alle ossa è la paglia, che qui poi non è così abbondante; a questa quota l'erba è rada e bassa, ogni cosa che vuoi costa un pedaggio di lavoro, anche il pagliericcio per dormire. Le foto dei ruderi attuali (fatte nel 2010), dove prima abitava il pastore, mostrano a me, ancora oggi incredulo, come e dove passasse quei 4 mesi di solitudine, anno dopo anno.
Incredulo di come riuscisse a normalizzare solitudine, fatica, intemperie, sbronze e... i sogni, quali?
D'estate l'unico diversivo erano i pochi escursionisti, il suo istinto distingueva, presagiva quelli che non si fermavano a parlare, che al massimo rispondevano al saluto ma subito estinguevano quel breve tempuscolo dell'incontro, lentamente mettendo un piede dopo l'altro, come dire "lo vedi che non mi fermo, non dire altro, salutiamoci e basta così"
Ci si fa l'abitudine, dopo un po', e non si pretende la luna che non c'è; si puo' solo sperare che il vento cambi, almeno una volta tanto.
Quel giorno passavo io, era un giro da due giorni fatto in poche ore, quella volta volevo, dovevo correre ...
"bundì"... "chi l'è chiel" ... anch'io tiravo ad andare, ma lui insistette " dai, sètta giò 'n mument" ... si fece deciso forse perché non avevo molta roba colorata addosso. Allora, e adesso ancora meno, non curavo il look, spesso indossando maglie e pantaloncini col buco. Le scarpe no, quelle devono essere a posto. Contano quanto l'allenamento e la testa, quando vai in montagna. Nello zaino, poi, ho sempre due chili di indumenti extra, ma il look no, non c'è. Così lui insistette. E ci azzeccò.

Mi fermai un'ora, e anche se mi rodeva il pensiero che da là ce ne vogliono più di quattro solo per tornare in macchina, ed anche correndo, ed erano già le 17,... tuttavia continuavo a stare con lui.
Seduti entrambi sulle pietre con i cani, ormai quieti, a girarci intorno.
Un'ora volava, al Pianprato.
Questo luogo è un catino più orizzontale e piatto di uno stadio, lungo 400 metri, a 2200 di quota, e il ruscello Loo vi scorre disegnando anse ad 'esse' come fa il Mississippi raggiunta la pianura, nei documentari e nei film.
Un'ora volava, complice il Loo e anche l'aria fine, la voce del Ricu, la sua palese voglia di compagnia. Ricu, "sta per Federico, Federico Tiboldo", diceva.
In un'ora mi disse varie cose, che era di Tavigliano, che aveva parenti verso Buronzo, in posti che poi avrei scoperto, aprendo i libri di altre storie. Divagava su quella vita laggiù, d'inverno, sui figli rimasti giù e su parenti che facevano la stessa vita in altre vallate. Conosceva altri pastori e faceva nomi che io dimenticavo perché non li avevo ancora incontrati, nomi che poi avrei associato a mani reali da stringere e volti veri da rivedere, a ricordi da inseguire ... anni dopo.
Non parlava volentieri delle giornate lì in quota, era l'unico mestiere che sapeva fare, scuole interrotte da piccolo e lavoro, quel lavoro. Scelto per esclusione.
E ammirava quei suoi due cani che correvano al posto suo e non perdevano mai una bestia. Erano in gamba ed erano i migliori della cucciolata. I cani al lavoro nei vari alpeggi sono frutto di selezione e, ahimé, di scarsa pietà, perché le cucciolate sono un mix di talenti spontanei e di brocchi, e i brocchi spesso vengono soppressi. Perché stupirsene? Accadeva anche tra i ben meno poveri allevatori della pianura, o anche tra i cacciatori, gente che stava bene e non misurava le decisioni con la fame.

........... fine prima parte
È sempre un piacere leggere le tue di vita storie vissute :hail:
 
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