Sulla odissea di Marco, scatenata dalla grigia e sinistra mattina di Campiglio, riporto questo bellissimo (come sempre) articolo di
Enzo Vicennati, tratto da:
www.ilsussidiario.net
OLTRE LA CRONACA / La vera storia del mio amico Marco Pantani
Sono già passati dieci anni, sembra ieri. Marco Pantani primo al Giro e poi anche al Tour. Marco Pantani finalmente padrone dei suoi sogni, dopo anni di cadute, dolore, maledizioni, ferite e il continuo e cocciuto rialzarsi di ogni volta. Marco Pantani a ventotto anni sul tetto del mondo, con la sensazione della festa appena iniziata, osannato dai media e dai tifosi, il personaggio più popolare d’Italia, anche al di là degli stretti confini del ciclismo. Pantani fu Marco, prima di diventare il campione celebrato da tutti.
Conoscerlo ragazzino, con i capelli al loro posto e il mondo là fuori che era ancora tutto da scoprire, fu un privilegio riservato a pochi: coloro che credevano e ancora credono che per scrivere di campioni occorre scoprire l’uomo all’interno dell’atleta, senza considerarli icone o semplici macchine da guerra. Marco sapeva riconoscere nell’interlocutore la capacità di approfondire e andare oltre lo strato superficiale. Rifiutava le domande banali e si dedicava con grande attenzione a quelle più stimolanti, con la capacità di non essere mai banale. Al giornalista amico, Pantani dava il titolo ad ogni risposta. Le prime lezioni memorabili ad Indurain nel 1994. Un investimento alla vigilia del Giro del 1995. Il ritorno faticoso e poi trionfale al Tour della prima vittoria all’Alpe d’Huez. Il mondiale del terzo posto in Colombia e poi una gamba spezzata pochi giorni dopo e il rischio crudele e scongiurato dell’amputazione. Un anno per risalire la china e poi il ritorno maledetto al Giro d’Italia, con quel gatto fra le
ruote e la caduta del Valico del Chiunzi. Ancora una caduta e ancora un ritorno, al Tour de France, con quell’arrivo solitario - ancora all’Alpe d’Huez - e un urlo rabbioso sulla vetta a scuotergli il petto e far tremare il cielo.
Il 1998 sembrava l’anno in cui tutti i conti erano stati pareggiati e da lì in poi tutto sarebbe filato alla perfezione, invece la maledizione non era appagata e presentò il conto nel 1999, nel corso di un Giro dominato con la forza di un inverno senza infortuni e la consapevolezza di essere il più forte. Madonna di Campiglio fu per lui e chi meglio lo conosceva come uno schiaffo in faccia davanti a milioni di persone, per una colpa che Marco non avrebbe mai riconosciuto. Un controllo del sangue che si svolse fra mille anomalie e fu invece sposato dalla grande stampa e dalla giustizia, senza che nessuno mai cercasse di capire se la ribellione di Pantani fosse basata su elementi concreti. Controllarono Pantani, ma umiliarono Marco. Lo mandarono a casa dal Giro dicendo che aveva barato e questo fu l’inizio della sua fine.
Eppure accaddero cose assurde: il controllo poteva essere impugnato, ma Marco era tranquillo e vi si sottopose con il cuore leggero. Arrivarono in grave ritardo: avrebbe potuto rifiutarsi, ma li aspettò. Gli proposero una sola provetta invece delle due di rito: avrebbe potuto rifiutarsi, ma li assecondò. Ma quando dissero che non era in regola e lui provò a dire che non era vero, nessuno sentì il bisogno di assecondare lui. Neppure quando, sei mesi dopo, la regola per cui fu mandato a casa venne cambiata inquanto ritenuta inaffidabile e, sulla base del nuovo ordinamento, Marco in quel Giro sarebbe risultato a posto.
Perché nessun grande quotidiano si scagliò contro l’Unione ciclistica internazionale, chiedendo i danni morali per quel linciaggio fondato su una prova inattendibile? Da quel giorno, da quei giorni dannati nulla fu più come un tempo. E solo oggi, quando ormai il tempo ha lavato le ferite e attutito il dolore, la gente nelle strade ha capito che quel massacro e quelle sette Procure sul collo altro non furono che il disegno ordito da chi aveva in odio che un uomo così piccolo avesse così tanto successo.
C’è chi sulla pelle di Pantani ha compiuto manovre indecenti. Non credo nella giustizia degli uomini, confido piuttosto in quella divina. E spero che come Giuda si trovò a penzolare con i suoi trenta denari in tasca, ci sia in un angolo di mondo qualcuno che di notte non riesce più a dormire, schiacciato dall’asfissiante colpa di quel giorno di Campiglio.
La gente l’ha capito e ancora oggi acclama il campione. Guardando le salite. Guardando le vette orfane del loro interprete migliore. Ascoltando nel silenzio della montagna il suo respiro, che ancora popola i boschi e i tornanti che lo riconobbero signore delle cime.
Vecchio Marco, mi manchi davvero tanto.
(Enzo Vicennati)