CON GLI OCCHI DI ATTILA
Neanche il tempo di scattare e Pogačar è già sul mio gruppetto. Siamo in fuga da molte decine di chilometri, siamo andati d’amore e d’accordo. Qualche cambio a dire il vero è stato rimandato, qualche vaffanculo è stato detto. Siamo rimasti io, un Bardiani che non so chi sia, un giovane della Polti che sembra venire da queste zone, Storer e Geschke, che è riuscito nell’impresa di non vincere manco un GPM oggi. O almeno così mi sembra. Davanti ci sono Nairo e Steinhauser: ci sono sfuggiti, maledizione. Hanno una gran gamba.
Noi fuggitivi, comunque, pensavamo di andare forte. Eravamo quasi 60: un bel drappello. Nella mia squadra siamo rimasti mica in tanti (Christophe, Olav e Cian ci mancano parecchio), per cui ho fatto affidamento soprattutto sul lavoro altrui: sembrava di stare nella pancia del gruppo fatta e finita, solo tre minuti davanti a essa. Pensavamo di andare forte, ripeto, finché non ci ha affiancato quel razzo rosa. Avessi avuto fiato in eccesso, gli avrei chiesto se fa lo stesso sport nostro, quando l’ho visto sfrecciarmi accanto.
Ha provato a saltarci di slancio proprio nei pressi di un camper ricoperto da un bandierone tedesco. Dev’essere il fan club di Maximilian Schachmann. Se lo ricordo bene è perché, nello sforzo massimo di inseguire quella freccia rosa, mi sono rimasti impressi alcuni dettagli. Nessuno lo segue, ma io devo provarci. Da un paio di minuti mi sento urlare nella radiolina che dovrò dare tutto per seguirlo: forse vogliono sapere qualche dato in più sulla sua potenza, forse vogliono che gli dia fastidio gratuito, che ne so. Fatto sta che io sono Attila Valter, mica ho i superpoteri, né il potere contrattuale di infischiarmene. E quindi non posso fare come voglio: se mi dicono di sputare un polmone per rimanere con lui, io quello devo fare.
La prima cosa di cui mi accorgo è la differenza di pedalata. La sua agilità è un
o, io sono un piatto che si rompe cadendo per terra. Ma mi sembra di essere salito su di un treno: in un amen sverniciamo Nicola Conci (lo riconosco perché è uno dei pochi corridori che non gira uno dei due #13 che porta sulla schiena), poi un’orrida visione mi coglie alla sprovvista. Ha su la corona grande. Questo pazzo sta affrontando la prima salita del Giro oltre quota 2.000 col padellone. Non ci voglio credere.
Forse anche per quello, o per la sfiga portata dal #13 di Conci, o perché quello lì non è fatto di carne e ossa come noi, o per chissà quali altri motivi, beh insomma mi stacco. Cedo di schianto, anzi. Arriverò al traguardo quasi cinque minuti dopo Pogačar.
Ai giornalisti che mi hanno chiesto com’è stato provare a seguirlo ho farfugliato frasi banali, tutte stronzate. Cos’ho visto realmente non so dire. Non mi era mai capitato di vedere qualcuno andare così in bicicletta.
Per Alvento Magazine - Michele Pelacci
Foto: SprintCyclingAgency