[quote="Morris";1272386]Adrian Penagos: dal Messico, per riportare a Marco, quella che fu una sua bicicletta.
Adrian Penagos e la bicicletta Carrera che fu di Marco Pantani
Una storia che commuove, particolare, significativa e, per chi è più sensibile, da fraterni abbracci.
Il protagonista è un signore messicano di 36 anni, Adrian Penagos, di Cordoba. Un appassionato di ciclismo da sempre, tanto pedalatore, quanto attento osservatore del non sempre felice cammino di questo sport. Una passione che lha spinto ulteriormente, aldilà delle esigenze di vita, ad imparare quellitaliano che oggi parla meglio di tanti figli, anche titolati, del cosiddetto Bel Paese.
Nella prima mattinata di giovedì 18 settembre, dopo un lungo viaggio, Adrian ha finalmente raggiunto laeroporto di Firenze, dove lo aspettava Thomas Casali, Direttore dello Spazio Pantani, portando con sé un prezioso valigione: per lui innanzitutto, ma anche per tutti coloro che continueranno ad amare immutati quel ragazzo venuto dal mare per impreziosire i monti. Sì, con lincredibile Penagos, allinterno di quel contenitore, è giunta in Italia la bicicletta Carrera, che Marco Pantani, il non ancora Pirata, usò nella sua prima stagione professionistica e con la quale vinse il Giro dItalia Baby del 1992.
La storia di Adrian e di questa sua donazione al museo di Marco, esce dalle sue parole con lemozione di chi, prima di tutto, sa far parlare il cuore. Lo si sente dalla sua voce, lo si vede dai suoi sguardi che paion cercare il suo-nostro campione e da quegli occhi cosparsi dalla patina lucida che precede le lacrime.
E lui a raccontarla, così bene, da spingerci ad un mero atto di trascrizione.
Nel gennaio del 1994 esordisce - la Ruta del Mexico fece tappa vicino a casa mia. Avevo allora ventidue anni, ed ero un amatore ciclistico nel senso più ampio: gestivo infatti un negozio di biciclette che portava il nome di Bici Tress, dal cognome di mia madre, di lontane origini bellunesi. Grazie a queste congiunzioni, mi potevo permettere di pedalare su una bici col telaio in carbonio. Certo, il carbonio di quei tempi, che non aveva le qualità di quello di oggi, ed io lo trovavo troppo morbido per le mie caratteristiche. Decisi così di cambiare la bici e di ritornare allacciaio leggero, che era ancora il metallo leader delle biciclette del periodo. Loccasione di contattare, proprio dalla carovana, una delle diverse squadre europee partecipanti alla Ruta, mi parve opportuna, anche perché il mese di gennaio era per loro non solo stagione di preparazione, ma anche di rinnovo di materiali. Mi avvicinai alla Carrera e vidi che uno dei corridori, proprio quel Pantani che si era messo in luce in quei giorni con lunghe fughe, aveva una taglia molto simile alla mia e pensai immediatamente alla sua bicicletta, come quella eventualmente da comprare, se il team lavesse posta in vendita. Avvicinai uno dei direttori sportivi, dopo aver scritto su un foglietto la mia richiesta, perché allora non parlavo italiano. Costui mi rispose che erano disponibili a cedermi lo strumento di Marco, ma solo a fine Ruta. La domenica di chiusura della manifestazione, raggiunsi Città del Messico, ed ottenni quanto era nelle mie speranze. Qualche mese dopo, Pantani esplose, divenendo il corridore che emozionava tutti, anche noi messicani ed io, pedalando su quella bici su cui era pure impresso il suo nome, mi trovai a rispondere a decine e decine di domande circa il passato di quel mezzo e se era veramente stato di Marco. Quella bicicletta, fu la mia compagna di pedalate fino al 1996, quando lidolo Pantani stava lottando per recuperare dallincidente della Milano Torino. Non lavrei mai abbandonata, ma era nel frattempo divenuta troppa la paura di vedermela rubata, così decisi di tenerla come un pegno di famiglia, a casa mia. Per le mie uscite passai ad una bici in titanio, metallo di grande valore commerciale, comunque ridicolo al cospetto di una bici, pur di vecchio acciaio, su cui aveva corso Marco Pantani. Quello strumento era divenuto una parte di me: nelle gioie quanto nei dolori e nelle tristezze della vita di chi laveva portato ad essere un esemplare raro e leggendario. Ogni giorno mi soffermavo davanti a quella Carrera, come fosse un altare. Tanto più dopo la morte di un campione inimitabile, che dovrebbe essere lorgoglio di voi italiani. Nel tempo però, ho iniziato a pormi la domanda: è giusto che solo io possa vedere e toccare quella bicicletta? Oppure ancora, vista la tragica fine di Marco: è il miglior modo di essere in pace con se stessi, tenersi stretti in casa propria, un segmento della vita di un campione che era di tutti? Le mie risposte si sono progressivamente avviate al no, soprattutto quando in Cesenatico sè aperto il Museo Pantani. Ed è per questo che sono giunto qui. Già, per donare la bicicletta di Marco alla sua casa, al suo spirito e per tutti coloro che gli vorranno sempre bene. Il sottoscritto, ha già avuto la fortuna di accarezzare quel pezzo di vita di un campione così grande, per ben 14 anni. Probabilmente, col tempo, mi crescerà la nostalgia, ma so che ho compiuto lazione più giusta. E mi basta.
Adrian Penagos, un uomo di cuore, pochi avrebbero fatto ciò che ha fatto lui. Un campione anchegli, nel suo genere. Soprattutto, una persona che per amore verso un mito che non ha confini nazionali, è venuto qua, a Cesenatico, a prendersi il premio a cui tanto ambiva: abbracciare i genitori del campione venuto dal mare per echeggiare sui monti la sua poesia incancellabile.
Morris
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Bel gesto Marco lo meritava
Adrian Penagos e la bicicletta Carrera che fu di Marco Pantani
Una storia che commuove, particolare, significativa e, per chi è più sensibile, da fraterni abbracci.
Il protagonista è un signore messicano di 36 anni, Adrian Penagos, di Cordoba. Un appassionato di ciclismo da sempre, tanto pedalatore, quanto attento osservatore del non sempre felice cammino di questo sport. Una passione che lha spinto ulteriormente, aldilà delle esigenze di vita, ad imparare quellitaliano che oggi parla meglio di tanti figli, anche titolati, del cosiddetto Bel Paese.
Nella prima mattinata di giovedì 18 settembre, dopo un lungo viaggio, Adrian ha finalmente raggiunto laeroporto di Firenze, dove lo aspettava Thomas Casali, Direttore dello Spazio Pantani, portando con sé un prezioso valigione: per lui innanzitutto, ma anche per tutti coloro che continueranno ad amare immutati quel ragazzo venuto dal mare per impreziosire i monti. Sì, con lincredibile Penagos, allinterno di quel contenitore, è giunta in Italia la bicicletta Carrera, che Marco Pantani, il non ancora Pirata, usò nella sua prima stagione professionistica e con la quale vinse il Giro dItalia Baby del 1992.
La storia di Adrian e di questa sua donazione al museo di Marco, esce dalle sue parole con lemozione di chi, prima di tutto, sa far parlare il cuore. Lo si sente dalla sua voce, lo si vede dai suoi sguardi che paion cercare il suo-nostro campione e da quegli occhi cosparsi dalla patina lucida che precede le lacrime.
E lui a raccontarla, così bene, da spingerci ad un mero atto di trascrizione.
Nel gennaio del 1994 esordisce - la Ruta del Mexico fece tappa vicino a casa mia. Avevo allora ventidue anni, ed ero un amatore ciclistico nel senso più ampio: gestivo infatti un negozio di biciclette che portava il nome di Bici Tress, dal cognome di mia madre, di lontane origini bellunesi. Grazie a queste congiunzioni, mi potevo permettere di pedalare su una bici col telaio in carbonio. Certo, il carbonio di quei tempi, che non aveva le qualità di quello di oggi, ed io lo trovavo troppo morbido per le mie caratteristiche. Decisi così di cambiare la bici e di ritornare allacciaio leggero, che era ancora il metallo leader delle biciclette del periodo. Loccasione di contattare, proprio dalla carovana, una delle diverse squadre europee partecipanti alla Ruta, mi parve opportuna, anche perché il mese di gennaio era per loro non solo stagione di preparazione, ma anche di rinnovo di materiali. Mi avvicinai alla Carrera e vidi che uno dei corridori, proprio quel Pantani che si era messo in luce in quei giorni con lunghe fughe, aveva una taglia molto simile alla mia e pensai immediatamente alla sua bicicletta, come quella eventualmente da comprare, se il team lavesse posta in vendita. Avvicinai uno dei direttori sportivi, dopo aver scritto su un foglietto la mia richiesta, perché allora non parlavo italiano. Costui mi rispose che erano disponibili a cedermi lo strumento di Marco, ma solo a fine Ruta. La domenica di chiusura della manifestazione, raggiunsi Città del Messico, ed ottenni quanto era nelle mie speranze. Qualche mese dopo, Pantani esplose, divenendo il corridore che emozionava tutti, anche noi messicani ed io, pedalando su quella bici su cui era pure impresso il suo nome, mi trovai a rispondere a decine e decine di domande circa il passato di quel mezzo e se era veramente stato di Marco. Quella bicicletta, fu la mia compagna di pedalate fino al 1996, quando lidolo Pantani stava lottando per recuperare dallincidente della Milano Torino. Non lavrei mai abbandonata, ma era nel frattempo divenuta troppa la paura di vedermela rubata, così decisi di tenerla come un pegno di famiglia, a casa mia. Per le mie uscite passai ad una bici in titanio, metallo di grande valore commerciale, comunque ridicolo al cospetto di una bici, pur di vecchio acciaio, su cui aveva corso Marco Pantani. Quello strumento era divenuto una parte di me: nelle gioie quanto nei dolori e nelle tristezze della vita di chi laveva portato ad essere un esemplare raro e leggendario. Ogni giorno mi soffermavo davanti a quella Carrera, come fosse un altare. Tanto più dopo la morte di un campione inimitabile, che dovrebbe essere lorgoglio di voi italiani. Nel tempo però, ho iniziato a pormi la domanda: è giusto che solo io possa vedere e toccare quella bicicletta? Oppure ancora, vista la tragica fine di Marco: è il miglior modo di essere in pace con se stessi, tenersi stretti in casa propria, un segmento della vita di un campione che era di tutti? Le mie risposte si sono progressivamente avviate al no, soprattutto quando in Cesenatico sè aperto il Museo Pantani. Ed è per questo che sono giunto qui. Già, per donare la bicicletta di Marco alla sua casa, al suo spirito e per tutti coloro che gli vorranno sempre bene. Il sottoscritto, ha già avuto la fortuna di accarezzare quel pezzo di vita di un campione così grande, per ben 14 anni. Probabilmente, col tempo, mi crescerà la nostalgia, ma so che ho compiuto lazione più giusta. E mi basta.
Adrian Penagos, un uomo di cuore, pochi avrebbero fatto ciò che ha fatto lui. Un campione anchegli, nel suo genere. Soprattutto, una persona che per amore verso un mito che non ha confini nazionali, è venuto qua, a Cesenatico, a prendersi il premio a cui tanto ambiva: abbracciare i genitori del campione venuto dal mare per echeggiare sui monti la sua poesia incancellabile.
Morris
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Bel gesto Marco lo meritava