Vabbè, a gentil richiesta di nessuno... ecco il terzo racconto di montagna.
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Storie vecchie in montagna
Federico Tiboldo, detto "Ricu" - 26/9/2015
Pianprato
dove dormiva il pastore:
Il "Ricu", 1985
Un altro ricordo, un'altra storia.
Tutto vero e vivo, dentro di me.
Era il 1983.
Ero salito da Piedicavallo al colle della Ronda, poi per un sentiero perfido al lago Lamaccia, quindi su al PianPrato, quota 2200, obiettivo colle Loo, per poi rientrare con una lunga traversata alla Mologna Grande, passare al Rifugio Rivetti e giù a Piedicavallo. Gran giro con valli, ruscelli, laghetti, panorami e incontri, talvolta. Talvolta animali, marmotte e uccelli vari, rare le aquile, rari gli eremiti, meno rari i gitanti.
In luglio-agosto incontri qualche altro girovago come te, ma se fai il giro in novembre, ti regala solitudine, quando anche l'acqua diventa silenzio, dopo aver smesso di schiaffeggiare le pietre, quando si prepara al suo letargo, il gelo. Con l'acqua, a novembre, si fermano i rumori, tranne il vento.
Ma quel giro dell'83 era di agosto e c'era qualcuno in giro, magliette e pantaloncini colorati, gioventù e zaini.
All'alpe Pianprato mi accolglie il segnale del cane vigile, che ti sente a distanze enormi e avvisa il padrone. Un abbaiare senza aggressività, ma deciso e intransigente. Poi passa lui, il pastore, con una tanica di plastica piena dell'acqua del Loo, per la baita. Ma s'era portato anche quella del vino, un bel 5 litri pieno a metà. Non lasciava la bevanda rossa in baita, se la portava appresso. Da quelle parti il vino è benzina, conforto, consolazione, e purtroppo a volte sostituisce un pasto regolare, e ti illude di pareggiare i conti con una vita di 4 mesi duri, tra dure pietre.
Lì, la sera ti viene addosso come una piccola condanna ripetitiva, a cui fuggi rintanandoti in un bivacco di pietre poco ospitali.
Al Pianprato ancora tra il 1980 e '90 non c'erano baite rivestite all'interno, e tantomeno case, ma solo muri di pietra con tante fessure continuamente percorse dal vento, dal freddo, da topi ed insetti. L'unico legno è la volta, o il pavimento se visto da sopra, tra la stalla e un minuscolo abitacolo superiore. Tavole senza materassi, dove l'unica imbottitura che smussa i dolori alle ossa è la paglia, che qui poi non è così abbondante; a questa quota l'erba è rada e bassa, ogni cosa che vuoi costa un pedaggio di lavoro, anche il pagliericcio per dormire. Le foto dei ruderi attuali (fatte nel 2010), dove prima abitava il pastore, mostrano a me, ancora oggi incredulo, come e dove passasse quei 4 mesi di solitudine, anno dopo anno.
Incredulo di come riuscisse a normalizzare solitudine, fatica, intemperie, sbronze e... i sogni, quali?
D'estate l'unico diversivo erano i pochi escursionisti, il suo istinto distingueva, presagiva quelli che non si fermavano a parlare, che al massimo rispondevano al saluto ma subito estinguevano quel breve tempuscolo dell'incontro, lentamente mettendo un piede dopo l'altro, come dire "lo vedi che non mi fermo, non dire altro, salutiamoci e basta così"
Ci si fa l'abitudine, dopo un po', e non si pretende la luna che non c'è; si puo' solo sperare che il vento cambi, almeno una volta tanto.
Quel giorno passavo io, era un giro da due giorni fatto in poche ore, quella volta volevo, dovevo correre ...
"bundì"... "chi l'è chiel" ... anch'io tiravo ad andare, ma lui insistette " dai, sètta giò 'n mument" ... si fece deciso forse perché non avevo molta roba colorata addosso. Allora, e adesso ancora meno, non curavo il look, spesso indossando maglie e pantaloncini col buco. Le scarpe no, quelle devono essere a posto. Contano quanto l'allenamento e la testa, quando vai in montagna. Nello zaino, poi, ho sempre due chili di indumenti extra, ma il look no, non c'è. Così lui insistette. E ci azzeccò.
Mi fermai un'ora, e anche se mi rodeva il pensiero che da là ce ne vogliono più di quattro solo per tornare in macchina, ed anche correndo, ed erano già le 17,... tuttavia continuavo a stare con lui.
Seduti entrambi sulle pietre con i cani, ormai quieti, a girarci intorno.
Un'ora volava, al Pianprato.
Questo luogo è un catino più orizzontale e piatto di uno stadio, lungo 400 metri, a 2200 di quota, e il ruscello Loo vi scorre disegnando anse ad 'esse' come fa il Mississippi raggiunta la pianura, nei documentari e nei film.
Un'ora volava, complice il Loo e anche l'aria fine, la voce del Ricu, la sua palese voglia di compagnia. Ricu, "sta per Federico, Federico Tiboldo", diceva.
In un'ora mi disse varie cose, che era di Tavigliano, che aveva parenti verso Buronzo, in posti che poi avrei scoperto, aprendo i libri di altre storie. Divagava su quella vita laggiù, d'inverno, sui figli rimasti giù e su parenti che facevano la stessa vita in altre vallate. Conosceva altri pastori e faceva nomi che io dimenticavo perché non li avevo ancora incontrati, nomi che poi avrei associato a mani reali da stringere e volti veri da rivedere, a ricordi da inseguire ... anni dopo.
Non parlava volentieri delle giornate lì in quota, era l'unico mestiere che sapeva fare, scuole interrotte da piccolo e lavoro, quel lavoro. Scelto per esclusione.
E ammirava quei suoi due cani che correvano al posto suo e non perdevano mai una bestia. Erano in gamba ed erano i migliori della cucciolata. I cani al lavoro nei vari alpeggi sono frutto di selezione e, ahimé, di scarsa pietà, perché le cucciolate sono un mix di talenti spontanei e di brocchi, e i brocchi spesso vengono soppressi. Perché stupirsene? Accadeva anche tra i ben meno poveri allevatori della pianura, o anche tra i cacciatori, gente che stava bene e non misurava le decisioni con la fame.
........... fine prima parte